Ogni mese il gruppo Facebook "Educatori, Consulenti pedagogici e Pedagogisti" propone un tema, una riflessione educativa, alla quale partecipare con un proprio contributo scritto.
Una volta raccolti, quest'ultimi vengono ospitati e divulgati dal circuito blogger di Snodi Pedagogici.
Il tema del mese di febbraio: Pedagogia e Scuola
"Con l'ingresso nel circuito scolastico i bambini smettono di essere “esclusiva proprietà” delle famiglie ed entrano a pieno diritto nella società come soggetti. Subito dopo il contesto educativo per eccellenza (la famiglia) è la scuola il luogo in cui bambini e ragazzi passano la maggior parte del loro tempo.
Come e quanto viene percepito dalla scuola e dai suoi attori il ruolo educativo che viene loro chiesto? Qual è l'anello mancante nel processo insegnamento-apprendimento? Come vivono la scuola coloro che ci lavorano?”
Buona lettura.
#pedagogiaescuola
STORIA DI UNA PROF....
che non voleva fare la prof!
di Denise Paroni
È da qualche giorno che sto riorganizzando il pensiero per
poter scrivere questo intervento e mi viene sempre più complicato trovare il
modo- magari anche organico- di riassumere in poche e chiare righe i miei 8
anni nel mondo della scuola. I miei 8 anni precari nella scuola. I miei
meravigliosi 8 anni “tra i banchi” (perché dietro la cattedra è una noia
mortale), i miei “8 anni di solitudine” tra i corridoi e le sale professori. I
miei 8 anni “al cardiopalma” di gite, programmazioni, interventi mirati, scrutini
e consigli straordinari. Ovviamente gli aggettivi attribuiti agli anni e ai
luoghi, fisici o ideali che siano, corrispondenti non sono affatto casuali.
Non mi sono ancora presentata e ho già messo sufficiente
carne al fuoco probabilmente. Sarà un vizio del mestiere. Sono un’insegnante di
spagnolo che per 5 anni ha lavorato nella scuola media e da 2 anni lavora nella
scuola superiore, in un istituto tecnico. Sono un’insegnante che per i primi 2
anni da prof. Ha litigato- come mi piace sempre dire- con il suo lavoro…
all’inizio infatti non ero convinta di voler intraprendere questa strada, la
breve strada verso la SCUOLA REALE e la contorta e ripida salita di montagna
dell’essere “in ruolo”. Perché dico questo? Perché nella scuola reale,
purtroppo, un giovane laureato…ci si trova catapultato in mezzo nanosecondo.
Basta mandare un curriculum, a volte, e già sei arruolato. E già sei lì,
davanti ad almeno 20 visini sconosciuti, diversi e con bisogni diversi. A me è
successo così: sono capitata A CASO nel mondo della scuola reale, in 2 secondi
con il registro in mano e un programma da portare avanti. Avevo 25 anni e mi
ero laureata circa 5 mesi prima… L’incoscienza della gioventù, il mio vissuto
da studentessa ( e non ve lo spiego….mamma mia…un disastrino) le precedenti ed estemporanee esperienze in
campo educativo, la mia faccia tosta di chiedere sempre tutto a tutti e un po’
di sano buon senso, sono state le mie bussole per il mio primo anno da prof
che, tra l’altro, probabilmente è iniziato da quando, nel mese di dicembre, ho
iniziato a scrivere il registro a penna ( perché prima ero talmente in panico
da scriverlo a matita!!!!?) e ho smesso di ossessionarmi con : “io non ho fatto
nessun colloquio…lo Stato è ammattito…ti manda in classe ma tu potresti essere
un serial killer!!!!!!!”
Eh sì, perché non si può parlare di scuola senza
considerarla nella sua realtà pratica: una buona fetta di insegnanti, entra in
classe solo per i titoli acquisiti durante l’Università…in 8 anni ho avuto
l’onore- perdonatemi- di fare un colloquio preliminare prima di entrare in
classe SOLO CON UNA PRESIDE. Questo non è forse un dato importante e saliente
per poter valutare il ruolo della scuola nella nostra società attuale? Questo
non sottende una ben precisa concezione della scuola?
Quindi, in primis, la scuola è luogo- secondo la
pianificazione politica- in cui si acquisisce un sapere, non importa come, non
importa perché. E soprattutto questo implica che una laurea corrisponde a
“saper trasmettere una conoscenza” … ci rendiamo conto del posto che occupa
l’educazione/la crescita/la percezione del sé e degli altri/le relazioni in un
quadro alla Munch come questo?
Perdonate la provocazione, che tra l’altro va anche a mio
discapito da un certo punto di vista, ma i primi 2 anni della mia vita da prof
sono stati scanditi da questi e da un milione di giganteschi altri quesiti. Ed
è per questo che ho litigato con il mio lavoro per un po’.
L’altro inquietante interrogativo che accompagnava le mie
corse tra una classe e l’altra (perché di classi all’anno ne avevo almeno 9)
riguardava un non ancora ben focalizzato rapporto “libertà altrui/gestione del
potere da parte mia” che non mi tornava. Infatti, la Scuola in cui mi sembrava
di stare era una Scuola in cui la relazione educativa si presentava un po’
troppo rigida per i miei gusti…ed io mi sentivo intrappolata tra la volontà di
stare in relazione con i ragazzi (che non chiamerò appositamente alunni- lo
trovo un termine molto freddo…piuttosto utilizzerò studenti) e ciò che la
Scuola mi permetteva di fare. Mi sentivo male, stretta, invidiavo tantissimo
gli educatori che incontravo a scuola…loro sì, che potevano essere in relazione
con i ragazzi, io no, io ero la PROF.
È bastato poi un mese di mensa con i ragazzi, qualche
intervallo di vigilanza e un viaggio d’istruzione in Spagna con 3 terze medie a
farmi scendere da quel piedistallo di insicurezze e barriere che da sola mi ero
creata: essere IL PROF non funziona…lì, arroccato dietro la cattedra, impaurito
dalle incombenze burocratiche e dal “verbalese” che la Scuola impone, censore
dell’alunno che chiacchera, scribano di note a volte inutili….impaurito dal
dover gestire un potere immenso che corrisponde ( e lo dice anche Spiderman) a
gigantesche responsabilità.
Ho cominciato allora a stare in mezzo ai banchi, a non aver
paura di essere la prof che volevo essere: con i sui limiti e i suoi errori, i
suoi pregi e i suoi scleri, con la sua voglia di Ascolto, di mettersi in
discussione, di spiegarsi e di stare con i ragazzi. Ho iniziato a sorridere in
classe e ho scoperto che questo mi fa sorridere anche e soprattutto fuori dalla
classe. Anche i miei studenti sorridono di più. Ho imparato e sto ancora
imparando ogni giorno a farmi domande, a chiedere ai miei studenti come stanno,
a cogliere i malumori e i buonumori striscianti in classe. Ho imparato a
crederci, anzitutto, perché se non ci credi tu…che lo fai il professore…i tuoi
ragazzi, non ci crederanno mai. E sono poi arrivati anche “rinforzi positivi”
per me dai miei studenti. Cito uno dei più belli: “Prof, si vede che le piace
il suo lavoro, lei quando spiega si diverte più di noi! Mi piace fare lezione
con lei!”
Ho raccontato un po’ cosa, secondo me, serve a un professore
per “credere” in quello che fa…ma i ragazzi…allora…in COSA devono credere? E soprattutto
COME devono arrivare a “credere” nella scuola?
Cominciamo dal COSA devono credere. Inizio dal piano
prettamente didattico perché è più corto da spiegare ed è secondariamente-e qui
qualche collega prof potrebbe non essere d’accordo- interconnesso con il piano
della crescita globale dell’individuo che è sicuramente l’aspetto primario da
considerare.
I miei studenti, per quanto riguarda la didattica, “devono
credere” che il presente dell’indicativo in spagnolo possiede diversi tipi di
irregolarità, che il congiuntivo si usa nelle subordinate temporali quando
nella frase principale è presente un’azione sentita come futura, che Cervantes
ha scritto il “Quijote” e che la guerra civile spagnola si può definire come
una sorta di prologo della Seconda Guerra Mondiale… (elenco volutamente
parziale e per casuali sommi capi)
Devono credere a queste cose perché io li devo convincere
attraverso la solidità della mia preparazione in spagnolo che ovviamente è e
sarà sempre “in fieri”. Dico questo perché ci sono sempre degli argomenti in
cui un insegnante è poco convincente e gli studenti lo sentono. Hanno la
straordinaria capacità di vedere oltre, grazie a geniali marchingegni ai raggi
X. Loro ti vedono sempre…così come tu, caro prof, li becchi sempre. Non basta però
essere solidi nella preparazione, l’altra grande preoccupazione del prof è COME
far passare i concetti, tenendo conto dell’età, dei bisogni, del tempo a
disposizione e –perdonatemi- dell’ora in cui si svolge la lezione! (Io ogni
anno prego, oltre per avere un lavoro a tempo pieno, anche per avere sempre le
prime ore. Datemeli addormentati ma freschi, a svegliarli penso io!!!)
Ed è da questo COME poi che si passa all’altro piano, quello
della crescita personale, e da qui si si crea un altro COSA. Mi spiego: in base
a come io, prof, gestisco la mia lezione passando contenuti, al grado di
partecipazione e coinvolgimento dei miei studenti, alla motivazione mia e loro
che diventa motivazione di squadra a raggiungere un obiettivo, si crea un altro
COSA, molto più grande; un COSA fatto di valori, confronto e relazioni. Valori
etici sottesi a contenuti didattici che sono OPPORTUNITÀ per l’insegnante e per
i ragazzi di generare discussioni, riflessioni sul sé e il mondo, pratiche
relazionali che dovrebbero formare il gruppo e le persone a cui esso
appartengono per camminare un po’ da soli e con gli altri in mezzo al mondo.
Insomma, l’interazione è tutto in classe e non lo dico solo perché insegno una
lingua straniera.
La scuola è la prima vera esperienza extra-famigliare di
democrazia che un bambino vive. È uno dei pochi nervi su cui poggia il suo
futuro personale e lavorativo. E perché parlo di “nervo” è facilmente
intuibile: gli scoraggianti dati del cosiddetto drop-out scolastico sono
l’emblema del fallimento di un certo tipo di insegnanti, di scuola, di società,
di studenti. E in questo caso il nervo, diventa un nervo scoperto che può
compromettere e cambiare profondamente il futuro di tanti ragazzi che nella
scuola non trovano spazio per crescere ed esprimersi. Nel mio “precedente
ordine non casuale”, i ragazzi stanno all’ultimo posto delle responsabilità ma
non ne sono di certo privi.
Credo che però il gruppo degli “adulti” della scuola abbia
il dovere di aiutare a condurre i ragazzi verso un percorso formativo motivante
promovendo nell’agire quotidiano a scuola una visione positiva dell’atto stesso
del lavorare/far fatica e della comunicazione/ascolto dell’altro come forma di
crescita anche del sé.
Un’ultima considerazione poi mi fermo: è sempre più
difficile farli lavorare, muovere, attivare. L’abulia che la nostra società
trasmette si concretizza nella “pigrizia” dello studente contemporaneo. Io
credo che i ragazzi oggi non siano solo e semplicemente pigri. I ragazzi sono
proprio scoraggiati perché, tra l’altro, sono estremamente confusi e
decisamente convinti che i loro sforzi non li porteranno a nulla. Tanto vale farsi trasportare dalla corrente
perché comunque il più furbo è il vincente. “E quello che studia è il più
pirla!” -affermazione che spesso faccio in classe e in questa precisa forma ai
miei ragazzi come provocazione. Li vedo lì, dispersi e sovra-esposti a stimoli
intermittenti e sempre vari che arrivano da maccanismi d’acciaio, li vedo
spesso incapaci di guardarsi in faccia tra loro e allo specchio…sono fragili e
la scuola deve essere forte, i suoi insegnanti devono essere forti, i presidi
devono essere forti. E la forza non deve stare solo nei perché e nella
condivisione delle regole, la forza è da trovare nella motivazione a cercare
sempre risposte nuove, a metterle in discussione e a riformularne di altre. Il
mondo corre velocissimo e i professori, la scuola e la famiglia devono
allenarsi ad essere più veloci.
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Denise
Paroni è un’insegnante di spagnolo. Ha 33 anni, è precaria da 8 e
attualmente sta frequentando il corso abilitante all’insegnamento. Ha
lavorato per 6 anni nelle scuole medie della provincia di Milano e
dall’anno scorso insegna in un istituto tecnico
commerciale. Come ogni anno, dopo la fine di giugno, ignora la sua
prossima destinazione.
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