giovedì 24 aprile 2014

Disconnect: immaginari sul web

di Alessia Zucchelli



Vado al cinema stasera..
"Disconnect" viene presentato come un docu-film sulle conseguenze che l'avvento di internet e del web 2.0 hanno avuto nella vita di tutti noi; la serata rientra in una serie di iniziative che il Comitato Genitori di un Istituto Superiore e l'Istituto stesso stanno portando avanti sul tema Web e nuove generazioni.
Mi guardo intorno, in sala sono presenti ragazzi, genitori, insegnanti; recupero un paio di recensioni, da cui colgo che il film non presenta un punto di vista proprio positivo della tematica. Sono comunque molto incuriosita per approfondire la mia riflessione su educazione e web e soprattutto interessata ad esplorare gli immaginari che vengono proposti: quali contenuti e significati le agenzie educative divulgano a famiglie e ragazzi?
Si abbassano le luci,vengo catapultata in tre storie che da subito sento vive, dense: una famiglia sul lastrico economico, un paio di cyberbulli che finalmente trovano una vittima succulenta, una giornalista che cerca lo scoop nel mondo della prostituzione giovanile..storie tutte accumunate dall'essere cadute nella trappola del web..
..Che dire? Una tragedia! Il film si rivela un concentrato di situazioni catastrofiche e di vite spezzate proprio nell'incontro con internet 2.0: i social, le chat. Non solo i ragazzi ma -attenzione- gli adulti stessi finiscono -loro malgrado- nella trappola della rete, subendo conseguenze davvero catastrofiche.. a mio avviso, lasciatemelo dire, in maniera un pò ingenua.
Nel ruolo sicuro e tranquillo di spettatrice attendo che compaiano briciole di buon senso, barlumi di ragionevolezza..ma rimango quasi a bocca asciutta.
La sensazione che sento è di distacco ed estraniamento: una coppia sul lastrico per la clonatura della carta di credito, una famiglia distrutta per il suidcidio del figlio a seguito di atti di bullismo, una giornalista che tenta la scalata al successo intervistando un minore che si prostituisce online, il tutto condito da suspence e fiato sospeso, come neanche la migliore tradizione Horror.
Per carità, tutti fatti verosimili..ma così inanellati e farciti di ingenuità a me risultano poco credibili: davvero qualcuno pensa ancora che il web sia solo una didascalica catastrofe?
A un certo punto il ragazzo seduto vicino a me e che spesso durante il film estrae lo smartphone dalla tasca, chiede alla madre di andarsene:
"è triste..è brutto, voglio andare a casa"
..queste parole mi rincuorano..cominciavo a stare davvero scomoda nella poltroncina e ora so che qualcuno condivide questo stato d'animo. Alle parole del ragazzo capisco però che non si tratta dell'inquietudine che il film trasmette, come accade per lui, ma piuttosto del timore di essere sola -come spettatrice- nel sentirmi contrariata.
Ora, io non ho potuto chiedere ai ragazzi in sala che cosa si siano portati a casa da questa visione, ma la richiesta rivolta dal mio vicino alla madre mi è sembrata sana e rivelatoria..
Come possiamo non vergognarci di mostrare ai ragazzi un simile concentrato di catastrofi e di mancanza di buon senso adulto? Perchè, davvero, gli adulti rappresentati nel film non paiono semplicemente "umani", ma rasentano la sprovvedutezza.
Come possiamo da adulti identificarci in questi personaggi, tanto da decidere di mostrarli sul grande schermo ai ragazzi?
E ancora, come possiamo pensare che terrorizzare le nuove generazioni in questo modo -didascalico peraltro- possa davvero tornare utile affinchè prendano consapevolezza e affrontino i rischi (reali, per carità!) che la vita -e non il web in sè- ci riserva?
Come possiamo pensare di sensibilizzarli mostrando loro l'atto più estremo che si possa compiere: togliersi la vita? Quanti dei ragazzi in sala si saranno identificati col giovane protagonista suicida? Ma ancor prima, sensibilizzare coincide con spaventare?

Quando ci accorgeremo che stiamo vomitando addosso ai ragazzi tutte le nostre paure e il nostro bisogno di contenerle? Perchè non ci rendiamo conto che in questo modo risultiamo poco credibili e che se i ragazzi avranno il buon cuore di sforzarsi di crederci, un giorno potrebbero pensare di aver perso il loro tempo? Perchè la realtà che vivono è ben distante da come univocamente e paternalisticamente gliela dipingiamo!

Perchè non riusciamo a capire che il nostro ruolo non è quello di rinchiudere, censurare, dare voce ai nostri timori, ma quello di condividere la voglia di vivere, il bisogno di fare esperienze, di essere positivi dei ragazzi, camminando con loro e aiutandoli ad esplorare un mondo nuovo con senso critico per evitare le derive, oltre che accoglierli quando si fanno male?

Per chiudere la serata un professore dell'Istituto Comprensivo porta le sue riflessioni sul tema tecnica e tecnologia..(non ci crederete, ma ho deciso di andare fino in fondo!)..professore di filosofia, citando Francis Bacone -facendogli dire che la Tecnica 'nasce' per risolvere problemi ma ne causa poi ben altri- riesuma il mito di Dedalo che, inventore, costruisce una macchina-toro per soddisfare le pulsioni sessuali di Pasifae e ciò che ne deriva è il Minotauro, minaccia per la città e i suoi giovani; e ancora, non soddisfatto, ricorda il mito della Caverna di Platone per dare un monito: non dobbiamo farci ingannare, la realtà è ben altro!

Peccato che il professore si sia dimenticato che la sua voce poteva essere ascoltata dal pubblico grazie ad un microfono e che senza la tecnologia cinematografica, che ha permesso la produzione e la diffusione del film, le sue riflessioni non avrebbe potuto non solo condividerle, ma probabilmente nemmeno farle!
Applausi in sala.


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Alessia Zucchelli esercita la professione educativa dal 2001 a fianco degli adolescenti a cui si appassiona tanto da decidere di approfondirne la riflessione e la pratica educativa nel lavoro e in una tesi in Scienze dell’Educazione su giovani e famiglie nell’età contemporanea.
Appassionata al lavoro educativo, ritiene che agire PER e CON i ragazzi sia una pratica che ogni giorno le permette di apprendere e contemporaneamente prendersi cura del futuro, in una continua sfida di cambiamento e crescita.
Interessata all’Incontro, alla Comunicazione, alla Partecipazione, pensa che il web sia oggi luogo fondamentale per sperimentare e confrontarsi su pratiche educative che prevedano la possibilità di creare legami e buone prassi innovative.
Sogna un mondo in cui educare e trasmettere, imparare e apprendere, non siano considerati ambiti separati, ma vissuti come unico processo di scambio e crescita reciproca tra giovani e adulti.
Attualmente educatrice in Centri di Aggregazione Giovanile e in progetti contro la dispersione scolastica, è iscritta alla L. M. in Scienze Pedagogiche dell’Università di Bergamo.

venerdì 18 aprile 2014

tra fisico e web: educazione possibile


c'è una connessione tra ciò che facciamo tutti i giorni materialmente, fisicamente e ciò che mostriamo sul web. almeno per chi, come me ci sta tanto. e gli piace.

una delle dimensioni su cui sento molte preoccupazioni di adulti, in particolare i genitori, è di una possibilità di staccarsi dalla realtà fisica per essere inglobati nella rete
e qualche notizia sensazionalista sul fenomeno #hikikomori da man forte a queste, sane, preoccupazioni.
ma fino a che punto sono, appunto, delle "sane" preoccupazioni?

Lo sono, a parer mio, quando permettono agli adulti di interessarsi a ciò che fanno i ragazzi, i loro figli, nipoti, vicini di casa, alunni, allievi,...
che non vuol dire invadere i loro spazi, ma darsi disponibili per una protezione di cui i ragazzi spesso hanno bisogno, per un confronto che, difficilmente a parole, riescono a richiedere.
il web, paradossalmente, facilita questo processo. 
manca il corpo e con lui tanti sottili aspetti della vita "fisica" che spesso fanno far fatica. dietro allo schermo di uno smartphone non si vede che divento rossa. tra un messaggio e l'altro non si percepisce il sudore freddo di paura o di gioia.
gli emoticons li hanno inventati per cercare di dare emozioni ai messaggi, di sopperire in parte alla mancanza di un corpo. ma sappiamo che non lo sostituiscono di certo.
un corpo che, nella società dell'immagine in cui viviamo, viene fermato e filmato in immagini che riempiono la rete in pose plastiche ed innaturali. un'immagine che spesso non centra molto con quello che sono ma che li rappresenta per una parte.
e se ci pensiamo bene, è così anche per noi.

ho cambiato di recente la mia immagine sui miei profili. una foto di una preziosa fotografa, una formazione con un sacco di spunti sia sull'uso delle immagini che delle parole (e su google plus) mi hanno fatto fortemente riflettere su ciò che mettiamo noi, come adulti in rete.
e anche li le sfumature sono mille. forse di più di quelle dei ragazzi.
forse.
o forse, anche noi, dietro allo schermo di un pc o di un telefono, riusciamo a non arrossire.

ma se ciò accadesse, questa sarebbe una perdita secca. arrossire fa bene, è necessario per sentirsi vivi. il web ci può aiutare un po' a sciogliere, a dare una possibilità nuova di andare oltre, anche a farci pensare a come il web sta influenzando le nostre vite, i nostri incontri, la comunicazione con gli altri.
ieri sera ho ringraziato di un complimento che mi era arrivato tramite la foto sopracitata. ecco. credo che dal vivo non sarei riuscita a prendere il tempo che il web mi ha dato. ma sono arrossita, comunque. e mi sono imbarazzata. solo ho avuto un'altra chance.

il corpo dunque, sul web, c'è. c'è nelle foto, nei video, ma c'è anche nelle parole, frutto di un battere dei polpastrelli sui tasti o sul touchscreen. e forse, tenendolo bene in mente, possiamo provare a giocarci le possibilità che ci da, partendo dal comprendere cosa facciamo noi per capire come i ragazzi stanno dietro gli schermi, e come se la giocano tra fisico e web.

e allora forse, possiamo recuperare la potenza della preoccupazione che si trasforma non in angoscia ma in curiosità e possibilità di fare nuovi pensieri. perché nella vita dentro e fuori dal web, i nuovi pensieri e le nuove esperienze valgono tantissimo: ci fanno crescere. qualsiasi età abbiamo. 




venerdì 28 marzo 2014

#pedagogiaepolitica - ALL'INTERNO DELL'INFERNO - Michela Marzano

Ogni mese il gruppo Facebook "Educatori, Consulenti pedagogici e Pedagogisti" propone un tema, una riflessione educativa, alla quale partecipare con un proprio contributo scritto. Una volta raccolti, quest'ultimi vengono ospitati e divulgati dal circuito blogger di Snodi Pedagogici

Il tema del mese di marzo: pedagogia e politica.

"La cura della polis attraverso le pratiche di accudimento sociali. Una dimensione politica dell'educazione che esiste, anche se il termine politica, oggi si confonde troppo spesso con "partito" e può spaventare. Politica ed educazione, invece: due facce della stessa medaglia. Perché se le pratiche educative non diventano cura dei territori e costruzioni di reti di significati sociali, l'educazione perde in partenza la sua sfida. Un'educazione che non ha bisogno dell'aggettivo "civica" per essere sostanziata. Perché educare è già un atto civico. L'educazione tras-forma l'umanità in cittadinanza".

Un tema che va oltre le classiche figure educative e che contempla chi nella società cresce, vive e in questa vede un'occasione da lasciare come eredità alle nuove generazioni.

Inoltre, Snodi Pedagogici, tiene a precisare che il percorso dei blogging day non è casuale, ma facente parte di un progetto culturale più ampio. Quest'ultimo si sta lentamente concretizzando e appena avremo alcune conferme ne daremo l'annuncio, chiedendo a chi ha partecipato fin dal primo se è d'accordo a prendervi parte.

Buona lettura.




#pedagogiaepolitica
ALL'INTERNO DELL'INFERNO
di Michela Marzano

 “L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà – scriveva Italo Calvino. Se ce n’e uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni e che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige apprendimento continuo: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Uno degli scopi più importanti dell’educazione, se prendiamo sul serio Italo Calvino, è proprio questo: aiutare a capire il mondo che ci circonda per determinare non solo i margini di libertà d’azione che esistono, ma anche gli strumenti da adottare per cambiare le cose che non vanno all’interno dell’“inferno che abitiamo tutti i giorni”. Educare, da questo punto di vista, significa creare cultura; creare cultura significa aiutare a trovare le parole per qualificare quello che si vive; trovare le parole significa darsi forza e resistere. Ecco perché politica ed educazione sono senz’altro due facce della stessa medaglia. Soprattutto quando si crede, come me, che lo scopo della politica sia quello di creare le condizioni per costruire un vivere-insieme giusto.
Solo il pensiero critico, come ci hanno insegnato tra gli altri Adorno e Arendt, permette di fare a pezzi i pregiudizi, gli errori, i compromessi, le scuse, l’oscurantismo, i ritardi e le ingiurie. Solo il pensiero critico permette di riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno – per riprendere ancora una volta Calvino – non è inferno.
Etienne de la Boétie, l’amico del grande Montaigne, ci ha spiegato i meccanismi della servitù volontaria. Ogni essere umano, infatti, aspira alla libertà. Ma chi non ha mai conosciuto la libertà, come fa a capire che la propria condizione di schiavitù non è il frutto della necessità o della natura ma solo quello della dominazione violenta e ingiustificata altrui?
Forse è per questo che, secondo me, politica ed educazione devono andare di pari passo. Permettendo a tutte e tutti di uscire dalla servitù volontaria di cui si è spesso prigionieri. È solo così che si potrà sperare di lasciare ai nostri figli un mondo migliore in cui la giustizia, la libertà e l’uguaglianza non siano solo parole vuote, ma si traducano concretamente nella vita di tutti i giorni per permettere a chiunque di contribuire al vivere-insieme.  
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MICHELA MARZANO (Roma, 1970) ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Filosofia. Professore ordinario all’Université Paris Descartes, dirige una collana di saggi filosofici per le Edizioni PUF e collabora con “la Repubblica”. Dopo essere stata direttrice del Dipartimento di Scienze Sociali (SHS - Sorbona), nel febbraio 2013 è stata eletta deputato del Parlamento italiano.

È autrice di numerosi saggi e articoli di filosofia morale e politica. In Italia ha pubblicato, tra gli altri, Estensione del dominio della manipolazione (2009),Sii bella e stai zitta (2010), Volevo essere una farfalla (2011), Avere fiducia (2012), L'amore è tutto: è tutto ciò che so dell'amore (2013).

twitter @MichelaMarzano
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Tutti i contributi su #pedagogiaepolitica sono raccolti qui

I blog che partecipano:



sabato 22 marzo 2014

legalità/illegalità #3


un anno fa circa su un numero di Internazionale comparve una foto di una ragazza cipriota che teneva tra le mani un cartello che, tradotto in italiano suona più o meno così

SE NON CI LASCIATE SOGNARE
 NON VI FACCIAMO DORMIRE

un collega cattura la frase che diventa uno slogan utilizzato su tre comuni per un lavoro sulla legalità. l'estate, tempo perfetto per l'incontro nelle occasioni più disparate, e l'autunno, nelle scuole, hanno permesso di distribuire circa 1000 cartoline con questa scritta sopra.
dietro lo spazio per un commento, una frase, una citazione, un disegno.
un lavoro sul territorio che ha aperto porte e spunti di riflessione, incontrato sguardi, sentimenti e anche un solo cenno di "che cosa strana mi stai chiedendo?".
un incontro che a partire da molto lontano ci ha portati a parlare di legalità in tutte le sue sfumature: 

quanto è lontana questa tematica? quanto ci riguarda quotidianamente? di cosa parliamo, quando parliamo di illegalità? e quando parliamo di legalità? 

sono gli adulti quelli che non lasciano sognare i ragazzi? o sono i figli che non fanno passare notti serene ai genitori? e cosa accade allora, quando ciò accade alla controparte?

siamo partiti anche noi con la visione che la frase fosse di un/una ragazzo/a rivolto ad un adulto.
ma subito, tempo due sere, ed una mamma prende una cartolina e dice che ne prende una copia da mettere sulla porta della sua camera da letto, in modo che il figlio capisca.

AVEVO UN SOGNO NEL CASSETTO
 MA MI HANNO RUBATO IL MOBILE

è una delle frasi che raccogliamo che mostra quale livello anche di consapevolezza ci sia nella sensazione di non aver molte chance.
mi viene allora un collegamento con il post di Marco Lodoli su doppiozero
che invita ad andare oltre al consueto: le domande aperte non sono più "perchè?" ma
come? come facciamo? come ci poniamo? come insegniamo? come possiamo? come?

forse potremmo provare a collocarci in un ruolo differente.
noi adulti, certo.
noi educatori. noi pedagogisti. noi insegnanti.
noi professionisti che anche per pensare a questo e per "fare" educazione siamo pagati, la maggior parte delle volte con soldi pubblici (poco eh, sempre molto poco, ma con i soldi di tutti siam pagati. questo è chiaro)

e a partire dal giocarci un ruolo differente possiamo, forse, prospettare un futuro diverso ai ragazzi, dove si possa tornare a non lasciar dormire perchè non li si lascia sognare.
perchè qui, ora, il furto maggiore che stiamo facendo, è di non dare possibilità di sognare.

una cosa è certa:
per farli tornare a sognare, a lottare, a fare i conti con legalità, illegalità e possibilità di movimenti altri, bisogna che siano gli adulti a ripensarsi. guardando in faccia i ragazzi. ad uno ad uno. e tutti insieme.

abbiamo immaginato allora che una possibilità per lavorare sulla legalità sia uno stimolo alla partecipazione attiva. da questo è nato uno spot che ha intrecciato il lavoro con le scuole e il lavoro sul territorio, con questa riflessione abbiamo partecipato all'inaugurazione della nuova sede della Croce Bianca locale che ha sede in una casa confischiata alla mafia, con questo sguardo abbiamo creato situazioni di incontro e scambio.

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*i progetti di cui sopra sono parte del lavoro mio e dei colleghi della cooperativa Milagro nei progetti Itinera (comuni di Melzo e Liscate) e Progetto Giovani  (Pessano con Bornago).

giovedì 27 febbraio 2014

#pedagogiaescuola - Ricevo il lunedì

Ogni mese il gruppo Facebook "Educatori, Consulenti pedagogici e Pedagogisti" propone un tema, una riflessione educativa, alla quale partecipare con un proprio contributo scritto.
Una volta raccolti, quest'ultimi vengono ospitati e divulgati dal circuito blogger di Snodi Pedagogici.

Il tema del mese di febbraio: Pedagogia e Scuola

"Con l'ingresso nel circuito scolastico i bambini smettono di essere “esclusiva proprietà” delle famiglie ed entrano a pieno diritto nella società come soggetti. Subito dopo il contesto educativo per eccellenza (la famiglia) è la scuola il luogo in cui bambini e ragazzi passano la maggior parte del loro tempo.
Come e quanto viene percepito dalla scuola e dai suoi attori il ruolo educativo che viene loro chiesto? Qual è l'anello mancante nel processo insegnamento-apprendimento? Come vivono la scuola coloro che ci lavorano?”

Buona lettura.




#pedagogiaescuola
RICEVO IL LUNEDÌ

di Cristina Maggi

A settembre, come tutti gli anni, la scuola dove insegno francese mi chiese di comunicare il mio orario di ricevimento e io scelsi il lunedì alla quarta ora. Finora, i 60 minuti più solitari dell’intera settimana. Non capisco. So che l’80% dei miei alunni non userà mai più una parola francese dopo le scuole medie, ma non è questo il punto. Il confronto coi genitori mi è necessario proprio perché ho molti alunni e poche ore da passare con ciascuna classe: come posso sfruttare al meglio questo tempo con loro non solo come professoressa ma soprattutto come educatrice, se non so quasi nulla di loro? La famiglia e la scuola sono i principali sistemi educativi nella vita di un ragazzo in età scolare, la comunicazione è indispensabile! Grazie ai colloqui vengo a conoscenza di piccole e grandi difficoltà, potenzialità, aspirazioni, desideri, curiosità, preferenze e soprattutto paure. Per me è importante sapere come relazionarmi in certi casi.
Per esempio, dopo aver avuto un colloquio con la mamma di L., ho scoperto che l’alunna è in questione è ancor più timida di quel che immaginassi, e che l’idea di parlare una lingua straniera davanti all’intera classe la paralizzava. D’accordo con la madre, che da qualche mese la incoraggia (obbliga?) ad alzare la mano quando si sente pronta, per qualche settimana ho interpellato L. solo quando era lei a volerlo. E infatti, in meno di due mesi, L. ha acquisito sicurezza e adesso, quando la chiamo “a sorpresa”, riesce a lasciarsi andare quel tanto che basta per parlare un francese corretto, anche se sussurrato. Per me è un risultato enorme.
Ogni colloquio è stato un successo. L’interazione tra scuola e famiglia rappresenta non solo un utile momento di confronto, ma anche un atto di “legittimazione”:  vedendo che i genitori danno importanza a un docente, a tal punto da volerlo incontrare, lo studente è portato a non sottovalutarne il ruolo e, soprattutto, si sente scoraggiato dal raccontare bugie (o dall’omettere certe verità), che verrebbero comunque scoperte nel corso del colloquio. 



Il fatto che mi sconcerta di più è la leggerezza con cui molti ragazzi si propongono di affrontare la scuola media: non sono disposti a sacrificare il loro tempo libero per dedicarsi a uno studio approfondito e costante. Spesso, interrogandoli, riesco a ricavare solo qualche informazione rimasta impressa dopo la spiegazione in classe. Molti studenti fanno gli esercizi a casa col libro aperto alla pagina della spiegazione senza aver prima studiato; qualcuno cerca di studiare l’intero capitolo il giorno prima della verifica. In questi (numerosi!) casi, l’interazione tra scuola e famiglia è indispensabile: solo così la situazione può essere affrontata con efficacia e trasparenza.
Collaborazione! Siamo alle prese con la generazione dello smartphone, della banda larga, della tecnologia veloce, del tutto e subito. Questo sicuramente apre la mente a un sacco di nuovi stimoli, ma scoraggia davanti all’impegno e ai sacrifici per ottenere qualcosa. Come dimostra questo dialogo tra me e A., una mia alunna, durante una verifica:

A: prof, ma questa verifica è difficilissima, non riesco neanche a capire cosa devo fare!!!


io: hai letto la consegna?

A: no vabé non ancora, ma si vede che è difficile, ci sono un sacco di spazi vuoti, devo scrivere tutto io!!!

Educare è faticoso, difficile, e spesso ci pone nell’odiosa condizione di essere nei panni del cattivo che sgrida, urla, nega.  Joseph Joubert, un famoso filosofo francese, diceva che “Educare è un modo di amare”. La famiglia lo sa, che educando un figlio compie l’atto d’amore più grande che si possa immaginare. E lo sappiamo anche noi docenti che amiamo il nostro lavoro. Per questo apprezziamo ogni collaborazione, ogni informazione, ogni colloquio con voi genitori. Venite a trovarci! Io ricevo il lunedì ;-)

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Cristina Maggi, insegnante di lingue, inizia a lavorare come supplente nel 2006, innamorandosi istantaneamente e follemente del lavoro di professoressa. Nel frattempo continua i propri studi e si laurea in Lingue e Letterature Europee e Panamericane all’Università degli studi di Bergamo, specializzandosi in Lingua e Letteratura francese. In questi anni di insegnamento ha avuto la fortuna di incontrare gli studenti più incredibili del mondo, e grazie a loro si convince ogni giorno che questo è davvero il lavoro che vuole fare “da grande”.


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I blog che partecipano:

#pedagogiaescuola - storia di una prof.


Ogni mese il gruppo Facebook "Educatori, Consulenti pedagogici e Pedagogisti" propone un tema, una riflessione educativa, alla quale partecipare con un proprio contributo scritto.
Una volta raccolti, quest'ultimi vengono ospitati e divulgati dal circuito blogger di Snodi Pedagogici.


Il tema del mese di febbraio: Pedagogia e Scuola



"Con l'ingresso nel circuito scolastico i bambini smettono di essere “esclusiva proprietà” delle famiglie ed entrano a pieno diritto nella società come soggetti. Subito dopo il contesto educativo per eccellenza (la famiglia) è la scuola il luogo in cui bambini e ragazzi passano la maggior parte del loro tempo.
Come e quanto viene percepito dalla scuola e dai suoi attori il ruolo educativo che viene loro chiesto? Qual è l'anello mancante nel processo insegnamento-apprendimento? Come vivono la scuola coloro che ci lavorano?”

Buona lettura.



#pedagogiaescuola 
 STORIA DI UNA PROF....
che non voleva fare la prof!

di Denise Paroni

È da qualche giorno che sto riorganizzando il pensiero per poter scrivere questo intervento e mi viene sempre più complicato trovare il modo- magari anche organico- di riassumere in poche e chiare righe i miei 8 anni nel mondo della scuola. I miei 8 anni precari nella scuola. I miei meravigliosi 8 anni “tra i banchi” (perché dietro la cattedra è una noia mortale), i miei “8 anni di solitudine” tra i corridoi e le sale professori. I miei 8 anni “al cardiopalma” di gite, programmazioni, interventi mirati, scrutini e consigli straordinari. Ovviamente gli aggettivi attribuiti agli anni e ai luoghi, fisici o ideali che siano, corrispondenti non sono affatto casuali.

Non mi sono ancora presentata e ho già messo sufficiente carne al fuoco probabilmente. Sarà un vizio del mestiere. Sono un’insegnante di spagnolo che per 5 anni ha lavorato nella scuola media e da 2 anni lavora nella scuola superiore, in un istituto tecnico. Sono un’insegnante che per i primi 2 anni da prof. Ha litigato- come mi piace sempre dire- con il suo lavoro… all’inizio infatti non ero convinta di voler intraprendere questa strada, la breve strada verso la SCUOLA REALE e la contorta e ripida salita di montagna dell’essere “in ruolo”. Perché dico questo? Perché nella scuola reale, purtroppo, un giovane laureato…ci si trova catapultato in mezzo nanosecondo. Basta mandare un curriculum, a volte, e già sei arruolato. E già sei lì, davanti ad almeno 20 visini sconosciuti, diversi e con bisogni diversi. A me è successo così: sono capitata A CASO nel mondo della scuola reale, in 2 secondi con il registro in mano e un programma da portare avanti. Avevo 25 anni e mi ero laureata circa 5 mesi prima… L’incoscienza della gioventù, il mio vissuto da studentessa ( e non ve lo spiego….mamma mia…un disastrino)  le precedenti ed estemporanee esperienze in campo educativo, la mia faccia tosta di chiedere sempre tutto a tutti e un po’ di sano buon senso, sono state le mie bussole per il mio primo anno da prof che, tra l’altro, probabilmente è iniziato da quando, nel mese di dicembre, ho iniziato a scrivere il registro a penna ( perché prima ero talmente in panico da scriverlo a matita!!!!?) e ho smesso di ossessionarmi con : “io non ho fatto nessun colloquio…lo Stato è ammattito…ti manda in classe ma tu potresti essere un serial killer!!!!!!!”

Eh sì, perché non si può parlare di scuola senza considerarla nella sua realtà pratica: una buona fetta di insegnanti, entra in classe solo per i titoli acquisiti durante l’Università…in 8 anni ho avuto l’onore- perdonatemi- di fare un colloquio preliminare prima di entrare in classe SOLO CON UNA PRESIDE. Questo non è forse un dato importante e saliente per poter valutare il ruolo della scuola nella nostra società attuale? Questo non sottende una ben precisa concezione della scuola?

Quindi, in primis, la scuola è luogo- secondo la pianificazione politica- in cui si acquisisce un sapere, non importa come, non importa perché. E soprattutto questo implica che una laurea corrisponde a “saper trasmettere una conoscenza” … ci rendiamo conto del posto che occupa l’educazione/la crescita/la percezione del sé e degli altri/le relazioni in un quadro alla Munch come questo?

Perdonate la provocazione, che tra l’altro va anche a mio discapito da un certo punto di vista, ma i primi 2 anni della mia vita da prof sono stati scanditi da questi e da un milione di giganteschi altri quesiti. Ed è per questo che ho litigato con il mio lavoro per un po’.
L’altro inquietante interrogativo che accompagnava le mie corse tra una classe e l’altra (perché di classi all’anno ne avevo almeno 9) riguardava un non ancora ben focalizzato rapporto “libertà altrui/gestione del potere da parte mia” che non mi tornava. Infatti, la Scuola in cui mi sembrava di stare era una Scuola in cui la relazione educativa si presentava un po’ troppo rigida per i miei gusti…ed io mi sentivo intrappolata tra la volontà di stare in relazione con i ragazzi (che non chiamerò appositamente alunni- lo trovo un termine molto freddo…piuttosto utilizzerò studenti) e ciò che la Scuola mi permetteva di fare. Mi sentivo male, stretta, invidiavo tantissimo gli educatori che incontravo a scuola…loro sì, che potevano essere in relazione con i ragazzi, io no, io ero la PROF.

È bastato poi un mese di mensa con i ragazzi, qualche intervallo di vigilanza e un viaggio d’istruzione in Spagna con 3 terze medie a farmi scendere da quel piedistallo di insicurezze e barriere che da sola mi ero creata: essere IL PROF non funziona…lì, arroccato dietro la cattedra, impaurito dalle incombenze burocratiche e dal “verbalese” che la Scuola impone, censore dell’alunno che chiacchera, scribano di note a volte inutili….impaurito dal dover gestire un potere immenso che corrisponde ( e lo dice anche Spiderman) a gigantesche responsabilità.

Ho cominciato allora a stare in mezzo ai banchi, a non aver paura di essere la prof che volevo essere: con i sui limiti e i suoi errori, i suoi pregi e i suoi scleri, con la sua voglia di Ascolto, di mettersi in discussione, di spiegarsi e di stare con i ragazzi. Ho iniziato a sorridere in classe e ho scoperto che questo mi fa sorridere anche e soprattutto fuori dalla classe. Anche i miei studenti sorridono di più. Ho imparato e sto ancora imparando ogni giorno a farmi domande, a chiedere ai miei studenti come stanno, a cogliere i malumori e i buonumori striscianti in classe. Ho imparato a crederci, anzitutto, perché se non ci credi tu…che lo fai il professore…i tuoi ragazzi, non ci crederanno mai. E sono poi arrivati anche “rinforzi positivi” per me dai miei studenti. Cito uno dei più belli: “Prof, si vede che le piace il suo lavoro, lei quando spiega si diverte più di noi! Mi piace fare lezione con lei!”


Ho raccontato un po’ cosa, secondo me, serve a un professore per “credere” in quello che fa…ma i ragazzi…allora…in COSA devono credere? E soprattutto COME devono arrivare a “credere” nella scuola?
Cominciamo dal COSA devono credere. Inizio dal piano prettamente didattico perché è più corto da spiegare ed è secondariamente-e qui qualche collega prof potrebbe non essere d’accordo- interconnesso con il piano della crescita globale dell’individuo che è sicuramente l’aspetto primario da considerare.
I miei studenti, per quanto riguarda la didattica, “devono credere” che il presente dell’indicativo in spagnolo possiede diversi tipi di irregolarità, che il congiuntivo si usa nelle subordinate temporali quando nella frase principale è presente un’azione sentita come futura, che Cervantes ha scritto il “Quijote” e che la guerra civile spagnola si può definire come una sorta di prologo della Seconda Guerra Mondiale… (elenco volutamente parziale e per casuali sommi capi)

Devono credere a queste cose perché io li devo convincere attraverso la solidità della mia preparazione in spagnolo che ovviamente è e sarà sempre “in fieri”. Dico questo perché ci sono sempre degli argomenti in cui un insegnante è poco convincente e gli studenti lo sentono. Hanno la straordinaria capacità di vedere oltre, grazie a geniali marchingegni ai raggi X. Loro ti vedono sempre…così come tu, caro prof, li becchi sempre. Non basta però essere solidi nella preparazione, l’altra grande preoccupazione del prof è COME far passare i concetti, tenendo conto dell’età, dei bisogni, del tempo a disposizione e –perdonatemi- dell’ora in cui si svolge la lezione! (Io ogni anno prego, oltre per avere un lavoro a tempo pieno, anche per avere sempre le prime ore. Datemeli addormentati ma freschi, a svegliarli penso io!!!)

Ed è da questo COME poi che si passa all’altro piano, quello della crescita personale, e da qui si si crea un altro COSA. Mi spiego: in base a come io, prof, gestisco la mia lezione passando contenuti, al grado di partecipazione e coinvolgimento dei miei studenti, alla motivazione mia e loro che diventa motivazione di squadra a raggiungere un obiettivo, si crea un altro COSA, molto più grande; un COSA fatto di valori, confronto e relazioni. Valori etici sottesi a contenuti didattici che sono OPPORTUNITÀ per l’insegnante e per i ragazzi di generare discussioni, riflessioni sul sé e il mondo, pratiche relazionali che dovrebbero formare il gruppo e le persone a cui esso appartengono per camminare un po’ da soli e con gli altri in mezzo al mondo. Insomma, l’interazione è tutto in classe e non lo dico solo perché insegno una lingua straniera.

La scuola è la prima vera esperienza extra-famigliare di democrazia che un bambino vive. È uno dei pochi nervi su cui poggia il suo futuro personale e lavorativo. E perché parlo di “nervo” è facilmente intuibile: gli scoraggianti dati del cosiddetto drop-out scolastico sono l’emblema del fallimento di un certo tipo di insegnanti, di scuola, di società, di studenti. E in questo caso il nervo, diventa un nervo scoperto che può compromettere e cambiare profondamente il futuro di tanti ragazzi che nella scuola non trovano spazio per crescere ed esprimersi. Nel mio “precedente ordine non casuale”, i ragazzi stanno all’ultimo posto delle responsabilità ma non ne sono di certo privi.
Credo che però il gruppo degli “adulti” della scuola abbia il dovere di aiutare a condurre i ragazzi verso un percorso formativo motivante promovendo nell’agire quotidiano a scuola una visione positiva dell’atto stesso del lavorare/far fatica e della comunicazione/ascolto dell’altro come forma di crescita anche del sé.

Un’ultima considerazione poi mi fermo: è sempre più difficile farli lavorare, muovere, attivare. L’abulia che la nostra società trasmette si concretizza nella “pigrizia” dello studente contemporaneo. Io credo che i ragazzi oggi non siano solo e semplicemente pigri. I ragazzi sono proprio scoraggiati perché, tra l’altro, sono estremamente confusi e decisamente convinti che i loro sforzi non li porteranno a nulla.  Tanto vale farsi trasportare dalla corrente perché comunque il più furbo è il vincente. “E quello che studia è il più pirla!” -affermazione che spesso faccio in classe e in questa precisa forma ai miei ragazzi come provocazione. Li vedo lì, dispersi e sovra-esposti a stimoli intermittenti e sempre vari che arrivano da maccanismi d’acciaio, li vedo spesso incapaci di guardarsi in faccia tra loro e allo specchio…sono fragili e la scuola deve essere forte, i suoi insegnanti devono essere forti, i presidi devono essere forti. E la forza non deve stare solo nei perché e nella condivisione delle regole, la forza è da trovare nella motivazione a cercare sempre risposte nuove, a metterle in discussione e a riformularne di altre. Il mondo corre velocissimo e i professori, la scuola e la famiglia devono allenarsi ad essere più veloci.

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Denise Paroni è un’insegnante di spagnolo. Ha 33 anni, è precaria da 8 e attualmente sta frequentando il corso abilitante all’insegnamento. Ha lavorato per 6 anni nelle scuole medie della provincia di Milano e dall’anno scorso insegna in un istituto tecnico commerciale. Come ogni anno, dopo la fine di giugno, ignora la sua prossima destinazione.
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lunedì 3 febbraio 2014

legalità/illegalità #2


entrare in una scuola è varcare una porta, salutare i bidelli, salire un paio di rampe di scale, aprire una porta o trovarla già aperta con i ragazzi dentro che ti aspettano.
che ti aspettano???!??
non so.

io arrivo, il mio progetto esterno, due volte in ciascuna classe e due o tre "paggi" di quinta a fare da peer educators.
una scuola come tante, carica di testosterone per l'indirizzo che ha, con ragazzi che dovrebbero essere all'università ma sono in seconda, in terza.
una scuola fuori dal tempo per le materie che insegna, per il nome che ha.
ma i ragazzi, quelli dentro, quelli che fanno la scuola insieme ai professori, quelli sono perfettamente in tempo.

il percorso si chiama Devia: è partito lo scorso anno dall'idea di un ragazzo di quarta che parlando con una professoressa ha chiesto se non era possibile fare qualcosa per il bullismo che lui vedeva dilagante nella scuola.
la professoressa raccoglie la palla, chiede in comune se c'è qualcosa e una collega varca la soglia.

e trova un mondo di possibilità per parlare di un argomento scomodo che partendo dal bullismo arriva a ragionare attorno a ciò che c'è di legale e di illegale nel mondo che li circonda, a partire dalla scuola.
questa è una scuola che a loro piace per lo più: la dimensione laboratoriale, i progetti che entrano a scuola, un gruppetto di professori che ci credono molto, un bidello simpaticissimo.

in pochi mesi prima e dopo l'estate, con un gruppo di ragazzi "grandi" si è ragionato attorno al tema della legalità (e dell'illegalità). si è parlato di bullismo, di sostanze, di web per arrivare alla conclusione che il clima di classe incide molto sia sul rendimento dei singoli (sul successo formativo, diremmo noi) sia sul benessere della persona. e che "se uno sta bene, di cazzate ne fa meno, almeno."

con i grandi si è ragionato anche attorno al tema della responsabilità e con questo della necessità di "formare" gli altri compagni. sono stati così realizzati dei piccoli percorsi in ogni classe con temi e modalità differenti tra prima, seconda e terza. i grandi a fare da tutor del percorso, un educatrice in classe a condurlo. pensare, pensarsi. capire cosa si fa e come si sta. e che le due cose sono collegate.

ma cosa c'entra tutto ciò con la legalità?
quella è stata la dimensione sempre discussa sulla quale ci siamo (classe, tutor ed educatrici) affacciati: cos'è quel confine tra legalità e illegalità? com'è fatto? cosa c'entra con la scuola?

abilissimi a trovare ciò che di illegale li circonda, soprattutto quando sono le istituzioni che conoscono che le attuano (la scuola, il comune, l'associazione sportiva,...) faticano a vedere il proprio pezzo e ciò che è quotidiano: "si va bhe, ma quello è normale!"

ma la fatica maggiore è guardare in prospettiva, ad un futuro che non sanno e che nessuno li aiuta a vedere: pochi sogni nei cassetti, tanti desideri immediati e parole di canzoni che colpiscono per l'intensità e per la rapidità.

ma forse, anche questo furto di sogni, non è illegale?



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il percorso Devia è stato realizzato all'IPSIA di Melzo da Progetto Itinera. Progetto Itinera si occupa di ragazzi tra gli 11 e i 18 anni ed è frutto della coprogettazione tra due comuni (Melzo e Liscate -Mi-) e un'Ati composta da tre realtà (Coop. Milagro, Coop. Spazio Giovani, Parrocchia S.M. delle Stelle di Melzo)