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sabato 29 agosto 2015

Zone d'ombra e luce

Zone d'ombra e luce è il titolo dell'elaborazione e analisi di due ricerche su ragazzi e nuove tecnologie che ho realizzato per l'Università degli Studi di Bergamo, corso di laurea Scienze Pedagogiche a cui sono iscritta.

Le ricerche che ho analizzato sono:
  • Giovani e nuovi media: dinamiche relazionali e pratiche di consumo digitali di Gabriele Qualizza, Alessandro Ventura e Claudio Sambri, Università degli Studi di Trieste
  • I media digitali nella vita dei sedicenni delle scuole del Trentino: usi e competenze di Marco Gui, Marina Micheli e Chiara Tamanini, Iprase

Potete sfogliare e leggere il documento qui >> Zone d'ombra e luce


ps: Se vi interessasse utilizzarne delle parti vi chiedo la cortesia di essere preventivamente contattata e di aspettare una mia risposta. Grazie

giovedì 2 aprile 2015

BANANA: adolescente anomalo?









Martedì sera mi sono concessa un film: BANANA di Andrea Jublin (Italia, 2015) .

Film italiano sugli adolescenti ma decisamente dedicato al mondo adulto, #Banana è il soprannome di un ragazzino che nel gioco del calcio viene sempre messo a fare il portiere dai compagni, perché la palla la tira sempre fuori, ma che non rinuncia al sogno di ricercare la felicità, che lì sul campo da gioco è riuscire a fare goal.

Banana, maglietta gialla del Brasile, per questo sogno non si ferma davanti alle botte dei compagni quando immancabilmente la palla da lui calciata finisce oltre il muro e ritorna immancabilmente bucata. 

Film costellato da personaggi adolescenti che vestono panni di adulto molto comuni: il violento, quello attaccato ai soldi e col mito della macchina, la ragazza pluri-bocciata ma molto trendy e "gettonata" dai maschietti, dai quali si lascia "consumare" e che non capisce come sia possibile che Banana la voglia aiutare nello studio senza volersela portare a letto.
Film costellato anche da adulti grigi, rassegnati, senza sogni, con relazioni vuote, arcigni e cinici.
In questo mondo Banana non rinuncia al suo sogno, ovvero ricercare la felicità, come dichiara nel tema di italiano, nonostante le botte e le fregature che gli tornano indietro.

Banana dunque che adolescente è? Difficile dirlo, nel contesto della pellicola si può inquadrare, ad una prima lettura, come adolescente anomalo, impermeabile al grigio, sicuramente un sognatore..ma più che sognatore..
..Quando all'ennesima nota sul registro presa per aiutare Jessica nell'interrogazione, la professoressa di Italiano gli chiede: "ma perché lo fai? perché rischi così?",
Banana risponde di aver giurato che nel mondo non fanno tutti schifo.

Giuramento che più che speranza è una promessa, una dichiarazione di impegno e di responsabilità che scarta la logica costi-benefici/ "do ut des", in cui tutti gli altri personaggi sono invischiati, diventando inesorabilmente grigi e tristi.
Provando ad uscire da questa logica, puramente economica e quantitativa, per approdare ad una logica qualitativa, valoriale, etica, allora Banana non può che rivelarsi quale è: un eroe che lotta per i propri sogni, che non si piega ad una realtà grigia e che riesce, una goccia nel mare, a strappare un sorriso e un cambiamento nella cinica professoressa, che ritrova interesse all'ascolto e all'incontro con l'altro.

Secondo questa logica allora Banana non appare più anomalo, ma l'unico vero adolescente del film: l'unico a credere in modo autentico nell'amicizia, nell'amore, nelle promesse, nei sogni, nella relazione con le "persone speciali", mentre tutti gli altri sono adolescenti adultizzati troppo presto e, di più, imbruttiti troppo presto. Come forse spesso accade.

Allora posso dire, con la consapevolezza che oggi alcuni adolescenti sono grigi, che riesco a vedere una adolescenza ancora capace di sognare e di portare colore, anche se il colore in mezzo al grigio può risultare anomalo. 
Anomalo sì, ma rispetto a logiche a cui non voglio a cui non intendo necessariamente aderire e spero e sogno..anzi prometto..di riuscire sempre a valorizzare negli adolescenti che incontro quel po ' di Banana che riconosco in loro.

Un altro mondo è possibile come dichiara il cartellone pubblicitario che fa da sfondo alle confidenze tra Banana e Jessica.

venerdì 23 gennaio 2015

Comunità e famiglie

Nella comunità Mulino di Suardi situata nella Lomellina, in provincia di Pavia, una bella cascina ristrutturata accoglie 20 ragazzi tra i 14 e i 20 anni; 16 di loro sono minori stranieri non accompagnati, 4 invece arrivano con una precedente penale alle spalle.
In questo servizio lavorano 11 operatori che oggi hanno partecipato alla formazione. Provenienti da percorsi formativi differenti, con storie professionali molto variegate, mi trovo a condurre una formazione di un gruppo attento, che ha bisogno di essere un po' scaldato, ma che poi non si risparmia nel contribuire a costruire, a raccontarsi nel percorso professionale per comprendere meglio che direzioni si sceglie ogni giorno di intraprendere.
"parafrasando Marquez, la nostra specie racconta per vivere, altrimenti non saremmo qui. Dunque tirar fuori (ex-ducere) un'esperienza da se stessa e trasformarla in una storia per tutti, è un compito evolutivo fondamentale tanto quanto riprodursi biologicamente" (I. Salomone, Il Segno dell'Altro)

Il tema di cui mi devo occupare è il rapporto tra comunità per minori e famiglie
Parlare delle famiglie all'interno di comunità per minori sembra un paradosso: ciò che i ragazzi (o i bambini) lasciano fuori dalla porta è proprio una famiglia. E' una condizione di vincolo.

Costruire contesti familiari è, d'altro canto, necessario sia per l'età dei minori presenti nelle strutture, sia, un mandato istituzionale: è possibile costruire cura, in un contesto professionale, senza lavorare sulla familiarità del luogo, delle azioni messe in campo, delle relazioni tra educatore e utente?

Nel praticare educazione in una comunità, quali culture familiari si trasmette ai suoi utenti, spesso provenienti da paesi extracomunitari, a volte vicini e a volte distanti, geograficamente o culturalmente?

Come la comunità permette di lavorare sul rapporto minore e famiglia d'origine? quali pratiche mette in campo a sostegno?

Quale lavoro di decentramento e ri-centramento devono fare quotidianamente gli educatori per non sostituirsi ai padri e alle madri mancanti tenendo al centro il proprio mandato professionale?

Se il compito delle comunità per minori è quello di proteggere il minore e fargli sperimentare nuove possibilità di vita e di benessere, gli operatori del piano relazionale e familiare devono tenere conto, ogni giorno.
"per far si che il ragazzo diventi protagonista attivo del suo cambiamento, l'educatore deve proporsi come perturbatore strategicamente orientato che offrendo informazioni e provocazioni faccia leva sui processi autogenerativi di rinnovamento dello stesso ragazzo. Più che offrirgli giudizi compiuti sulle sue esperienze biografiche, l'educatore deve soffrire percorsi di interpretazione e soprattutto provocazioni a ripensare la realtà attuale, passata e futura alla luce di quelle nuove modalità di approccio al mondo acquisite durante la vicenda rieducativa"  (P. Bertolini, L. Caronia; Ragazzi Difficili. pedagogia interpretativa e linee di intervento).

Questa è la traccia di lavoro che ho articolato nel primo incontro di formazione per gli operatori delle comunità per minori Mulino di Suardi con i quali abbiamo sviscerato il tema e messo a fuoco ciò che viene trattato nel loro contesto e quali pratiche sostengono i pensieri. Nella foto trovate i testi da cui ho preso spunto per alcune citazioni.

Nel prossimo appuntamento di febbraio andremo a ragionare attorno a sperimentazioni possibili, innovative, differenti da mettere in campo e alle fatiche che questo tema richiede agli operatori.

giovedì 21 agosto 2014

IDENTITA' FUNAMBOLICHE: #SELFIE E RICERCA DI IDENTITA'



Picasso, Marie Therese nell'arcobaleno, 1939 



Mi capita spesso, quando apro l'applicazione WhatsApp dallo smartphone, di dare un'occhiata, così scorrendo, all'elenco dei profili dei contatti e, proprio mentre sono lì, vedere cambiare le immagini che rappresentano i contatti..scompare la vecchia per lasciare il posto ad una nuova e molto spesso più recente immagine che, sebbene in piccolo, raffigura lo stato di una persona o meglio, ciò che sinteticamente e visivamente, la persona vuole raccontare di sé in quel momento. 

Non nascondo di rimanere affascinata da questa dissolvenza: mentre osservo uno dei social più utilizzati di questi tempi, WhatsApp, nelle cui chat -sempre più multimediali- i ragazzi ultimamente si rifugiano, l'altro ha deciso di cambiare ciò che lo rappresenta.

Il concetto e il processo di cambiamento ha sempre catturato la mia curiosità ed interesse..cambiare, trasformare, non smettere di ricercare, hanno una potenza generativa che mi entusiasma sempre. 
Cambiamento che qui si coniuga con ciò che comunichiamo di noi agli altri, ovvero come vorremmo che gli altri ci vedano, la nostra immagine, la nostra identità o parte di essa.

Cambiamento come ricerca di identità..
Nella società liquida e complessa, all'individuo viene chiesto di agire e di esporsi costantemente in prima persona per costruire la propria singola esistenza. Senza più restrizioni ma anche senza le tradizionali griglie interpretative e di orientamento della società, fenomeno definito processo di individualizzazione (U. Beck),  il lavoro personale sull'identità sembra non essere più un presupposto su cui costruire obiettivi e raggiungere compiti di sviluppo e crescita, ma diventa meta esso stesso.
Viviamo un contesto caratterizzato da una continua riformulazione del presente, una realtà che necessita di continue ri-significazioni del presente, una continua ridefinizione dell'identità e dei propri percorsi (Z. Bauman).

Più degli adulti sono gli adolescenti e i giovani, ancora nel pieno della costruzione identitaria, i soggetti in cui questo cambiamento si manifesta chiaramente.

Questo aspetto lo ritrovo nel mio essere spettatore.. selfie singoli, in gruppo, immagini divertenti e giocose, oppure pose serie quasi da set, sorrisi impostati, messaggi d'amore o vignette, anche se più spesso sono loro: i ragazzi si espongono direttamente.
Allora seguo le tracce di chi si mostra in mille pose da modella, di chi si ritrae con i bambini seguiti al cre e poi con le amiche in vacanza; di chi comunica con la fidanzata frasi d'amore o facendole dono di immagini di sé sempre brillanti; di chi riesce a staccarsi dall'immagine patinata dell' idolo amato per pubblicare immagini di se stessa prima e, qualche giorno dopo, la propria -finalmente reale- storia d'amore..

..Cosa sono questi, se non tentativi di raccontarsi qui ed ora, di comunicare il loro presente, di rivedersi nello scatto di quell'istante e negli occhi dei destinatari di queste immagini?

I #selfie che oggi riempiono le bacheche, i profili e le memorie dei dispositivi mobili, si possono configurare come fenomeno legato alla necessità di costruire e trasformare costantemente l'identità: sono modelli utili -e in certe forme anche rischiosi- per la ricerca identitaria a cui siamo costretti, in una società che chiede di essere sempre attore e spettatore, simultaneamente. Utili a rivedermi, a ricevere feedback dall'altro, a comunicare uno stato presente.

E ancora, più degli adulti i ragazzi sanno di vivere UN presente, senza l'illusione che questo possa rimanere invariato nel tempo; al contrario, hanno la sapienza agita, molto adattiva a mio avviso, che di racconti di sé dovranno costruirne di diversi, in un'epoca caratterizzata da trasformazioni e soventi cambi di rotta.

.. Così seguo, anche attraverso questa modalità, le loro storie..o meglio, quello che a loro va di raccontare di sé. Convinta che oggi sia una via efficace per incontrarli.

Perché tutto questo? Per essere testimone.. per poter -nell'incontro- e come la mia professione vuole, restituire loro quello che la loro immagine mi ha comunicato e trasmesso.

mercoledì 30 aprile 2014

#pensodunquebloggo - C'ERA UNA VOLTA UN RE..







..C'era una volta un re, seduto sul sofà..
Da piccola, ad ogni ripetizione della tiritera pronunciata da mia madre, mi aspettavo una continuazione differente e pendevo dalle sue labbra...
beh, la storia doveva portare qualcosa di diverso, una prosecuzione..prima o poi sarebbe giunta ad un cambiamento..invece nulla, non accadeva niente.

..che diceva alla sua serva, raccontami una storia e la storia incominciò..

Quel contesto sapeva di infanzia,di filastrocche, di racconti orali..e soprattutto di bambini che dovevano dormire..ma la convinzione che una narrazione abbia la potenza di mettere in fila parti di un percorso di cambiamento era già un sentire, che nel tempo è affiorato alla mia consapevolezza fino a quando sono riuscita a dare un nome a quel "pendere dalle labbra".. 

..La narrazione come dimensione che ci permette di condividere e rendere partecipe delle esperienze,
la narrazione come strumento di costruzione di senso e significato, 
come mezzo per trasmettere abilità e conoscenza,
la narrazione per co-costruire la dimensione individuale e sociale del mondo, per trasformarlo e rinnovarlo, per abitarlo insieme all'altro da me. 

In sintesi, la narrazione come dispositivo di educazione. 

Non mi soffermerò su questo concetto, sul quale la letteratura si esprime da tempo, mi limiterò ad affermare che ritengo che questo aspetto sia il filo rosso che lega ogni parte del lavoro svolto fin qui da Snodi Pedagogici attraverso il Blogging Day. 

Articolo per articolo, post dopo post, compare il binomio educazione e narrazione. Non solo espresso come contenuto su cui gli autori dei post si sono spesi, ma educazione e narrazione come presupposto: grazie a questo motore è possibile, infatti, portare riflessioni, scambi, confronti, arricchimenti altrui - e miei in primis - perché condividere narrazione è già in sé un atto di cambiamento e quindi di crescita.

Così è avvenuto che alcuni genitori abbiano potuto confrontarsi sul proprio ruolo educativo, che diverse figure professionali -e non- che ruotano intorno alla scuola abbiano potuto scambiarsi sguardi e prospettive e che tutte le persone che compiono atti politici abbiano potuto riflettere da più punti di vista, favorendo una forma di pluralità.
..E non solo loro: la forma e il mezzo del web permette una capillare divulgazione dei contenuti e di amplificarne la risonanza, consentendo anche ad altri di contribuire, portando i loro commenti.
Che il web amplifichi le potenzialità del binomio educazione-narrazione? Lascio a voi la questione.

Intanto aspetterò il prossimo Blogging Day per continuare il mio personale, ma insieme collettivo, percorso di cambiamento e crescita. 

"C'era una volta un re.." era solo l'inizio, mi ha aiutato ad arrivare fin qui.

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Alessia Zucchelli esercita la professione educativa dal 2001 a fianco degli adolescenti a cui si appassiona tanto da decidere di approfondirne la riflessione e la pratica educativa nel lavoro e in una tesi in Scienze dell’Educazione su  giovani e famiglie.
Appassionata al lavoro educativo,  ritiene che agire CON i ragazzi sia una pratica che ogni giorno le permette di apprendere e contemporaneamente prendersi cura del futuro.
Interessata all’ Incontro, alla Comunicazione, alla Partecipazione, pensa che il web sia oggi luogo fondamentale per sperimentare e confrontarsi su pratiche educative.
Sogna un mondo in cui educare e trasmettere, imparare e apprendere, siano considerati come unico processo di scambio e crescita reciproca tra giovani e adulti.
Iscritta alla L. M. in Scienze Pedagogiche dell’Università di Bergamo, attualmente educatrice in Centri di Aggregazione Giovanile e in progetti contro la dispersione scolastica, è co-fondatrice di Snodi Pedagogici e per il Blogging Day, oltre che della scrittura, si occupa della divulgazione dei post.

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Trovi i link a tutti gli altri contributi al Blogging Day #pensodunquebloggo 

Vuoi contribuire per il prossimo BD #educazionEamore? 
Scrivi entro il 7 maggio alla redazione snodipedagogici@gmail.com 

sabato 22 marzo 2014

legalità/illegalità #3


un anno fa circa su un numero di Internazionale comparve una foto di una ragazza cipriota che teneva tra le mani un cartello che, tradotto in italiano suona più o meno così

SE NON CI LASCIATE SOGNARE
 NON VI FACCIAMO DORMIRE

un collega cattura la frase che diventa uno slogan utilizzato su tre comuni per un lavoro sulla legalità. l'estate, tempo perfetto per l'incontro nelle occasioni più disparate, e l'autunno, nelle scuole, hanno permesso di distribuire circa 1000 cartoline con questa scritta sopra.
dietro lo spazio per un commento, una frase, una citazione, un disegno.
un lavoro sul territorio che ha aperto porte e spunti di riflessione, incontrato sguardi, sentimenti e anche un solo cenno di "che cosa strana mi stai chiedendo?".
un incontro che a partire da molto lontano ci ha portati a parlare di legalità in tutte le sue sfumature: 

quanto è lontana questa tematica? quanto ci riguarda quotidianamente? di cosa parliamo, quando parliamo di illegalità? e quando parliamo di legalità? 

sono gli adulti quelli che non lasciano sognare i ragazzi? o sono i figli che non fanno passare notti serene ai genitori? e cosa accade allora, quando ciò accade alla controparte?

siamo partiti anche noi con la visione che la frase fosse di un/una ragazzo/a rivolto ad un adulto.
ma subito, tempo due sere, ed una mamma prende una cartolina e dice che ne prende una copia da mettere sulla porta della sua camera da letto, in modo che il figlio capisca.

AVEVO UN SOGNO NEL CASSETTO
 MA MI HANNO RUBATO IL MOBILE

è una delle frasi che raccogliamo che mostra quale livello anche di consapevolezza ci sia nella sensazione di non aver molte chance.
mi viene allora un collegamento con il post di Marco Lodoli su doppiozero
che invita ad andare oltre al consueto: le domande aperte non sono più "perchè?" ma
come? come facciamo? come ci poniamo? come insegniamo? come possiamo? come?

forse potremmo provare a collocarci in un ruolo differente.
noi adulti, certo.
noi educatori. noi pedagogisti. noi insegnanti.
noi professionisti che anche per pensare a questo e per "fare" educazione siamo pagati, la maggior parte delle volte con soldi pubblici (poco eh, sempre molto poco, ma con i soldi di tutti siam pagati. questo è chiaro)

e a partire dal giocarci un ruolo differente possiamo, forse, prospettare un futuro diverso ai ragazzi, dove si possa tornare a non lasciar dormire perchè non li si lascia sognare.
perchè qui, ora, il furto maggiore che stiamo facendo, è di non dare possibilità di sognare.

una cosa è certa:
per farli tornare a sognare, a lottare, a fare i conti con legalità, illegalità e possibilità di movimenti altri, bisogna che siano gli adulti a ripensarsi. guardando in faccia i ragazzi. ad uno ad uno. e tutti insieme.

abbiamo immaginato allora che una possibilità per lavorare sulla legalità sia uno stimolo alla partecipazione attiva. da questo è nato uno spot che ha intrecciato il lavoro con le scuole e il lavoro sul territorio, con questa riflessione abbiamo partecipato all'inaugurazione della nuova sede della Croce Bianca locale che ha sede in una casa confischiata alla mafia, con questo sguardo abbiamo creato situazioni di incontro e scambio.

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*i progetti di cui sopra sono parte del lavoro mio e dei colleghi della cooperativa Milagro nei progetti Itinera (comuni di Melzo e Liscate) e Progetto Giovani  (Pessano con Bornago).

lunedì 3 febbraio 2014

legalità/illegalità #2


entrare in una scuola è varcare una porta, salutare i bidelli, salire un paio di rampe di scale, aprire una porta o trovarla già aperta con i ragazzi dentro che ti aspettano.
che ti aspettano???!??
non so.

io arrivo, il mio progetto esterno, due volte in ciascuna classe e due o tre "paggi" di quinta a fare da peer educators.
una scuola come tante, carica di testosterone per l'indirizzo che ha, con ragazzi che dovrebbero essere all'università ma sono in seconda, in terza.
una scuola fuori dal tempo per le materie che insegna, per il nome che ha.
ma i ragazzi, quelli dentro, quelli che fanno la scuola insieme ai professori, quelli sono perfettamente in tempo.

il percorso si chiama Devia: è partito lo scorso anno dall'idea di un ragazzo di quarta che parlando con una professoressa ha chiesto se non era possibile fare qualcosa per il bullismo che lui vedeva dilagante nella scuola.
la professoressa raccoglie la palla, chiede in comune se c'è qualcosa e una collega varca la soglia.

e trova un mondo di possibilità per parlare di un argomento scomodo che partendo dal bullismo arriva a ragionare attorno a ciò che c'è di legale e di illegale nel mondo che li circonda, a partire dalla scuola.
questa è una scuola che a loro piace per lo più: la dimensione laboratoriale, i progetti che entrano a scuola, un gruppetto di professori che ci credono molto, un bidello simpaticissimo.

in pochi mesi prima e dopo l'estate, con un gruppo di ragazzi "grandi" si è ragionato attorno al tema della legalità (e dell'illegalità). si è parlato di bullismo, di sostanze, di web per arrivare alla conclusione che il clima di classe incide molto sia sul rendimento dei singoli (sul successo formativo, diremmo noi) sia sul benessere della persona. e che "se uno sta bene, di cazzate ne fa meno, almeno."

con i grandi si è ragionato anche attorno al tema della responsabilità e con questo della necessità di "formare" gli altri compagni. sono stati così realizzati dei piccoli percorsi in ogni classe con temi e modalità differenti tra prima, seconda e terza. i grandi a fare da tutor del percorso, un educatrice in classe a condurlo. pensare, pensarsi. capire cosa si fa e come si sta. e che le due cose sono collegate.

ma cosa c'entra tutto ciò con la legalità?
quella è stata la dimensione sempre discussa sulla quale ci siamo (classe, tutor ed educatrici) affacciati: cos'è quel confine tra legalità e illegalità? com'è fatto? cosa c'entra con la scuola?

abilissimi a trovare ciò che di illegale li circonda, soprattutto quando sono le istituzioni che conoscono che le attuano (la scuola, il comune, l'associazione sportiva,...) faticano a vedere il proprio pezzo e ciò che è quotidiano: "si va bhe, ma quello è normale!"

ma la fatica maggiore è guardare in prospettiva, ad un futuro che non sanno e che nessuno li aiuta a vedere: pochi sogni nei cassetti, tanti desideri immediati e parole di canzoni che colpiscono per l'intensità e per la rapidità.

ma forse, anche questo furto di sogni, non è illegale?



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il percorso Devia è stato realizzato all'IPSIA di Melzo da Progetto Itinera. Progetto Itinera si occupa di ragazzi tra gli 11 e i 18 anni ed è frutto della coprogettazione tra due comuni (Melzo e Liscate -Mi-) e un'Ati composta da tre realtà (Coop. Milagro, Coop. Spazio Giovani, Parrocchia S.M. delle Stelle di Melzo)




mercoledì 22 gennaio 2014

legalità/illegalità #1




il ragazzo più seguito dai servizi sociali tra quelli che ho mai incontrato:
nell'ultimo anno è passato da un ingente monteore di assistenza domiciliare minori (Adm) e da tre comunità minori.
lo segue uno staff intero.
ha 15 anni.
ha una famiglia alle spalle, una situazione "normale" o quantomeno come altre.
ha una serie di carichi pendenti con la giustizia, e lui lo giudica "normale".
ha un problema di definizione del limite tra ciò che è normale e ciò che non lo è, tra ciò che è legale e ciò che non lo è.

dunque: un ragazzo così cosa ci trova in un progetto di tutoring educativo da non mancare un incontro?
l'inizio, sempre con puntualità, c'è stato il misurarsi.
poi lo sperimentarsi.
ora forse anche il fidarsi,
tanto da raccontarmi di aver fatto da terzo ad un pestaggio per cui è in attesa di processo.
e se ne vanta: sia del pestaggio che del processo, anche di non aver detto i nomi degli amici.
"il poliziotto mi ha detto che sono un omertoso. ma io, i nomi dei miei amici non li faccio"

su un ragazzo così le domande che si aprono sono tantissime, sfaccettate.

in una scena dove l'illegalità è esaltata, esiste una possibile strada da intraprendere?
che potenza ha la legalità quando incontra l'illegalità diffusa e dichiarata?
la legalità va interrogata, ha bisogno di percorsi lunghi e faticosi, per cui servono competenze basilari?

perché se è così, qui non c'è nulla da fare...

lui è simpatico, ma soprattutto, è vivo.
nel senso che, nonostante tutto, o forse proprio perché ne ha combinate di ogni, lui ci sta provando: è in gioco.
non uno spettatore.
no.
in gioco con tutto se stesso, lui è in scena.
e questo, è l'appiglio potente da prendere a mio avviso.

ma se gli adulti che ha attorno gli hanno messo un'etichetta, quella del deviante, a cosa serve il suo essere in scena?
e mi chiedo ancora: ma il mettere un'etichetta cosa insegna? è giocare pulito? è "legale"?

venerdì 20 settembre 2013

il salto

 
la scuola, e non solo, hanno il dovere di insegnare le regole di convivenza, anche quelle sul web.
i ragazzi ne sono i maggiori (ne siamo proprio sicuri?) artefici e anche le vittime designate di una fatica a stare in relazioni costruttive che sul web trovano sfogo.
interessante il post di Che futuro! , molto.


forse, solo, dovremmo pensare che esistono anche altri luoghi oltre la scuola.
e in primis lo dobbiamo pensare noi come educatori che in quei servizi ci lavoriamo assumendoci la responsabilità e condividendo quella degli insegnanti.
giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, i ragazzi abitano i Centri d'Aggregazione Giovanile (CAG e similari) condividendo il loro "tempo libero" con Educatori Professionali.
forse, a differenza della scuola, essendo soggetti a gare d'appalto per la gestione dei servizi non possiamo passare indenni, lasciar correre l'evento o l'episodio, la quotidianità e la normalità distorta.
ma è possibile che sia solo il lato economico ad influenzare lo studio in materia, l'interrogarsi attorno al tema e lo sperimentare pratiche che permettano ai ragazzi di diventare maggiormente consapevoli di ciò che fanno in rete (come altrove, nella vita), la necessità di crescita professionale e culturale?
tutto per il soldo?
non so.
non credo. eppure sembra che sia cosi...

oppure la differenza la fanno le persone?
non so.
non credo. eppure...

eppure ne scrivevo oggi di ask.fm, di facebook, dei sistemi di messaggistica come whatapp: sono semplici strumenti utilizzati però sempre più frequentemente per permettere ai ragazzi di stare dietro lo schermo ed influire, negativamente, pesantemente sulle vite di un capro espiatorio, al massimo di un gruppo.

il più delle volte tutto finisce li, sul web, dov'era incominciato. o forse a noi sembra cosi.
ma quanto pesano le parole, gli insulti, le aggressioni verbali?
i social networks sono molto protettivi per gli aggressori per via dell'anonimato o del fatto che non ci si conosce necessariamente nel reale mentre sono invasivi per la vittima: tutto ciò che accade è pubblico.
dal gruppo su whatsapp alle discussioni su fb o alle risposte/domande su ask le parole arrivano dirette, senza veli, senza sguardi, nette e taglienti, magari giusto arrotondate e con un po' di spessore di un emoticon.
e i ragazzi, con quello slancio verso la vita e quella necessità di confrontarsi altrove per uscire dalla propria stanza, dalle proprie relazioni familiari, dai propri schemi, i ragazzi in cerca d'identità, sono i soggetti perfetti per entrare nel meccanismo.

cosa serve allora?
serve che dall'esterno ci sia qualcuno che sminuisca o allerti, che dia "la misura", che ponga le regole e che mostri -proteggendo- quando non le si rispettano.
concordo sul fatto che la scuola abbia un ruolo centrale: i ragazzi fino ai 16 anni hanno l'obbligo di formarsi, di andare a scuola e dunque, se un lavoro di prevenzione, azione e contrasto venisse fatto li, saremmo "a cavallo". ma così non è.
e i ragazzi invece così sono. e qui vivono. con questi social networks a disposizione, con queste poche regole con cui diventare grandi.

altre volte, sul web non finisce: è solo l'inizio per incontrarsi fisicamente. a volte per abbracciarsi, a volte per scontrarsi. e se gli abbracci non fanno clamore, le risse organizzate on line tra ragazzi della "bolobene" e della "bolofeccia" mostrano il lato oscuro di cui occuparsi. da adulti.
e da professionisti dell'educazione, certo, non ci si può non sentir coinvolti.

le mani si intrecciano, un piede ci si appoggia. un breve conto e si spicca un salto che da soli, proprio, non si può fare.
mai ho visto un ragazzo rifiutare un salto come questo, in mare.
perché loro -i ragazzi intendo- ci sono.
e noi?