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martedì 16 settembre 2014

il tempo è vita

"il tempo è vita" leggerlo come pubblicità per l'accademia vattelappesca per il recupero degli anni scolastici, mi fa pensare.
anche ad altro.
anche a come tutto sia vita. anche le cose che non ci piacciono. perché il tempo, quello no, non lo possiamo cambiare.
imparare nuove direzioni. smettere di fare come il Bianconiglio. e stare sulle cose con la velocità giusta, con lo sguardo sereno di chi ha in mano cose importanti. come la propria vita. come il proprio tempo.
perché che il tempo sia vita è innegabile. e innegabile anche che come lo si sviluppa è frutto di una storia personale, di prassi arcaiche e rivisitate, di ormoni che girano nel nostro corpo, di geografie e culture in cui siamo immersi.


nell'ascoltare un discorso sulla meditazione thapas mi è rimasto impressa l'immagine dei giorni relativizzati al corso intero di una vita. che cos'è un giorno? che cos'è un'ora? 
nulla.
eppure, anche quel momento è la nostra vita.

e quando, per lavoro, la nostra vita incrocia la vita di altri, la dimensione del tempo si fa ancora più importante e sottile: la cura, l'ascolto, la condivisione di azioni hanno bisogno di tempo. 
di tempo per costruire le relazioni, di costruire i significati, di aprire nuove prospettive.


il lavoro educativo a volte non se lo chiede ma chi incontriamo ci pone sempre davanti la quesitone del tempo.
e come i servizi lo gestiscono, come le persone lo organizzano incide sul tempo altrui. e se il tempo è vita, incide sulle vite altrui.

per questo, spesso, l'urgenza è in azione e la riflessione, tanto cara a me (e non solo) rimane sullo sfondo.
lo scrivere, il prendersi questo tempo per formulare pensieri e tracciarli in modo comprensibile ad altri, a volte diventa talmente secondario da scomparire.
il lavoro di comunicazione sul web che ha regole e vincoli, possibilità e rischi, spesso non viene neanche visto.
ed io che pure ne riconosco il valore, fatico.
perché do la precedenza all'organizzazione di un pre e post scuola per tutti quei genitori  di bambini dell'infanzia e delle elementari che ne hanno bisogno, di uno spazio compiti per i ragazzi delle scuole medie, di un evento che stiamo organizzando con l'attivissima partecipazione di un gruppo di giovani (e verrà una bomba, per dirlo come lo dicono loro ;-).
ma trovare 15 minuti ora per depositare questo pensiero è già un passo in avanti, che se no, neanche io me lo ricorderò tra qualche settimana. e nel perdere questo pensiero, perderei l'apprendimento che si, è così, ma non potrebbe essere diversamente?


giovedì 21 agosto 2014

IDENTITA' FUNAMBOLICHE: #SELFIE E RICERCA DI IDENTITA'



Picasso, Marie Therese nell'arcobaleno, 1939 



Mi capita spesso, quando apro l'applicazione WhatsApp dallo smartphone, di dare un'occhiata, così scorrendo, all'elenco dei profili dei contatti e, proprio mentre sono lì, vedere cambiare le immagini che rappresentano i contatti..scompare la vecchia per lasciare il posto ad una nuova e molto spesso più recente immagine che, sebbene in piccolo, raffigura lo stato di una persona o meglio, ciò che sinteticamente e visivamente, la persona vuole raccontare di sé in quel momento. 

Non nascondo di rimanere affascinata da questa dissolvenza: mentre osservo uno dei social più utilizzati di questi tempi, WhatsApp, nelle cui chat -sempre più multimediali- i ragazzi ultimamente si rifugiano, l'altro ha deciso di cambiare ciò che lo rappresenta.

Il concetto e il processo di cambiamento ha sempre catturato la mia curiosità ed interesse..cambiare, trasformare, non smettere di ricercare, hanno una potenza generativa che mi entusiasma sempre. 
Cambiamento che qui si coniuga con ciò che comunichiamo di noi agli altri, ovvero come vorremmo che gli altri ci vedano, la nostra immagine, la nostra identità o parte di essa.

Cambiamento come ricerca di identità..
Nella società liquida e complessa, all'individuo viene chiesto di agire e di esporsi costantemente in prima persona per costruire la propria singola esistenza. Senza più restrizioni ma anche senza le tradizionali griglie interpretative e di orientamento della società, fenomeno definito processo di individualizzazione (U. Beck),  il lavoro personale sull'identità sembra non essere più un presupposto su cui costruire obiettivi e raggiungere compiti di sviluppo e crescita, ma diventa meta esso stesso.
Viviamo un contesto caratterizzato da una continua riformulazione del presente, una realtà che necessita di continue ri-significazioni del presente, una continua ridefinizione dell'identità e dei propri percorsi (Z. Bauman).

Più degli adulti sono gli adolescenti e i giovani, ancora nel pieno della costruzione identitaria, i soggetti in cui questo cambiamento si manifesta chiaramente.

Questo aspetto lo ritrovo nel mio essere spettatore.. selfie singoli, in gruppo, immagini divertenti e giocose, oppure pose serie quasi da set, sorrisi impostati, messaggi d'amore o vignette, anche se più spesso sono loro: i ragazzi si espongono direttamente.
Allora seguo le tracce di chi si mostra in mille pose da modella, di chi si ritrae con i bambini seguiti al cre e poi con le amiche in vacanza; di chi comunica con la fidanzata frasi d'amore o facendole dono di immagini di sé sempre brillanti; di chi riesce a staccarsi dall'immagine patinata dell' idolo amato per pubblicare immagini di se stessa prima e, qualche giorno dopo, la propria -finalmente reale- storia d'amore..

..Cosa sono questi, se non tentativi di raccontarsi qui ed ora, di comunicare il loro presente, di rivedersi nello scatto di quell'istante e negli occhi dei destinatari di queste immagini?

I #selfie che oggi riempiono le bacheche, i profili e le memorie dei dispositivi mobili, si possono configurare come fenomeno legato alla necessità di costruire e trasformare costantemente l'identità: sono modelli utili -e in certe forme anche rischiosi- per la ricerca identitaria a cui siamo costretti, in una società che chiede di essere sempre attore e spettatore, simultaneamente. Utili a rivedermi, a ricevere feedback dall'altro, a comunicare uno stato presente.

E ancora, più degli adulti i ragazzi sanno di vivere UN presente, senza l'illusione che questo possa rimanere invariato nel tempo; al contrario, hanno la sapienza agita, molto adattiva a mio avviso, che di racconti di sé dovranno costruirne di diversi, in un'epoca caratterizzata da trasformazioni e soventi cambi di rotta.

.. Così seguo, anche attraverso questa modalità, le loro storie..o meglio, quello che a loro va di raccontare di sé. Convinta che oggi sia una via efficace per incontrarli.

Perché tutto questo? Per essere testimone.. per poter -nell'incontro- e come la mia professione vuole, restituire loro quello che la loro immagine mi ha comunicato e trasmesso.

mercoledì 30 aprile 2014

#pensodunquebloggo - C'ERA UNA VOLTA UN RE..







..C'era una volta un re, seduto sul sofà..
Da piccola, ad ogni ripetizione della tiritera pronunciata da mia madre, mi aspettavo una continuazione differente e pendevo dalle sue labbra...
beh, la storia doveva portare qualcosa di diverso, una prosecuzione..prima o poi sarebbe giunta ad un cambiamento..invece nulla, non accadeva niente.

..che diceva alla sua serva, raccontami una storia e la storia incominciò..

Quel contesto sapeva di infanzia,di filastrocche, di racconti orali..e soprattutto di bambini che dovevano dormire..ma la convinzione che una narrazione abbia la potenza di mettere in fila parti di un percorso di cambiamento era già un sentire, che nel tempo è affiorato alla mia consapevolezza fino a quando sono riuscita a dare un nome a quel "pendere dalle labbra".. 

..La narrazione come dimensione che ci permette di condividere e rendere partecipe delle esperienze,
la narrazione come strumento di costruzione di senso e significato, 
come mezzo per trasmettere abilità e conoscenza,
la narrazione per co-costruire la dimensione individuale e sociale del mondo, per trasformarlo e rinnovarlo, per abitarlo insieme all'altro da me. 

In sintesi, la narrazione come dispositivo di educazione. 

Non mi soffermerò su questo concetto, sul quale la letteratura si esprime da tempo, mi limiterò ad affermare che ritengo che questo aspetto sia il filo rosso che lega ogni parte del lavoro svolto fin qui da Snodi Pedagogici attraverso il Blogging Day. 

Articolo per articolo, post dopo post, compare il binomio educazione e narrazione. Non solo espresso come contenuto su cui gli autori dei post si sono spesi, ma educazione e narrazione come presupposto: grazie a questo motore è possibile, infatti, portare riflessioni, scambi, confronti, arricchimenti altrui - e miei in primis - perché condividere narrazione è già in sé un atto di cambiamento e quindi di crescita.

Così è avvenuto che alcuni genitori abbiano potuto confrontarsi sul proprio ruolo educativo, che diverse figure professionali -e non- che ruotano intorno alla scuola abbiano potuto scambiarsi sguardi e prospettive e che tutte le persone che compiono atti politici abbiano potuto riflettere da più punti di vista, favorendo una forma di pluralità.
..E non solo loro: la forma e il mezzo del web permette una capillare divulgazione dei contenuti e di amplificarne la risonanza, consentendo anche ad altri di contribuire, portando i loro commenti.
Che il web amplifichi le potenzialità del binomio educazione-narrazione? Lascio a voi la questione.

Intanto aspetterò il prossimo Blogging Day per continuare il mio personale, ma insieme collettivo, percorso di cambiamento e crescita. 

"C'era una volta un re.." era solo l'inizio, mi ha aiutato ad arrivare fin qui.

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Alessia Zucchelli esercita la professione educativa dal 2001 a fianco degli adolescenti a cui si appassiona tanto da decidere di approfondirne la riflessione e la pratica educativa nel lavoro e in una tesi in Scienze dell’Educazione su  giovani e famiglie.
Appassionata al lavoro educativo,  ritiene che agire CON i ragazzi sia una pratica che ogni giorno le permette di apprendere e contemporaneamente prendersi cura del futuro.
Interessata all’ Incontro, alla Comunicazione, alla Partecipazione, pensa che il web sia oggi luogo fondamentale per sperimentare e confrontarsi su pratiche educative.
Sogna un mondo in cui educare e trasmettere, imparare e apprendere, siano considerati come unico processo di scambio e crescita reciproca tra giovani e adulti.
Iscritta alla L. M. in Scienze Pedagogiche dell’Università di Bergamo, attualmente educatrice in Centri di Aggregazione Giovanile e in progetti contro la dispersione scolastica, è co-fondatrice di Snodi Pedagogici e per il Blogging Day, oltre che della scrittura, si occupa della divulgazione dei post.

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Trovi i link a tutti gli altri contributi al Blogging Day #pensodunquebloggo 

Vuoi contribuire per il prossimo BD #educazionEamore? 
Scrivi entro il 7 maggio alla redazione snodipedagogici@gmail.com 

venerdì 18 aprile 2014

tra fisico e web: educazione possibile


c'è una connessione tra ciò che facciamo tutti i giorni materialmente, fisicamente e ciò che mostriamo sul web. almeno per chi, come me ci sta tanto. e gli piace.

una delle dimensioni su cui sento molte preoccupazioni di adulti, in particolare i genitori, è di una possibilità di staccarsi dalla realtà fisica per essere inglobati nella rete
e qualche notizia sensazionalista sul fenomeno #hikikomori da man forte a queste, sane, preoccupazioni.
ma fino a che punto sono, appunto, delle "sane" preoccupazioni?

Lo sono, a parer mio, quando permettono agli adulti di interessarsi a ciò che fanno i ragazzi, i loro figli, nipoti, vicini di casa, alunni, allievi,...
che non vuol dire invadere i loro spazi, ma darsi disponibili per una protezione di cui i ragazzi spesso hanno bisogno, per un confronto che, difficilmente a parole, riescono a richiedere.
il web, paradossalmente, facilita questo processo. 
manca il corpo e con lui tanti sottili aspetti della vita "fisica" che spesso fanno far fatica. dietro allo schermo di uno smartphone non si vede che divento rossa. tra un messaggio e l'altro non si percepisce il sudore freddo di paura o di gioia.
gli emoticons li hanno inventati per cercare di dare emozioni ai messaggi, di sopperire in parte alla mancanza di un corpo. ma sappiamo che non lo sostituiscono di certo.
un corpo che, nella società dell'immagine in cui viviamo, viene fermato e filmato in immagini che riempiono la rete in pose plastiche ed innaturali. un'immagine che spesso non centra molto con quello che sono ma che li rappresenta per una parte.
e se ci pensiamo bene, è così anche per noi.

ho cambiato di recente la mia immagine sui miei profili. una foto di una preziosa fotografa, una formazione con un sacco di spunti sia sull'uso delle immagini che delle parole (e su google plus) mi hanno fatto fortemente riflettere su ciò che mettiamo noi, come adulti in rete.
e anche li le sfumature sono mille. forse di più di quelle dei ragazzi.
forse.
o forse, anche noi, dietro allo schermo di un pc o di un telefono, riusciamo a non arrossire.

ma se ciò accadesse, questa sarebbe una perdita secca. arrossire fa bene, è necessario per sentirsi vivi. il web ci può aiutare un po' a sciogliere, a dare una possibilità nuova di andare oltre, anche a farci pensare a come il web sta influenzando le nostre vite, i nostri incontri, la comunicazione con gli altri.
ieri sera ho ringraziato di un complimento che mi era arrivato tramite la foto sopracitata. ecco. credo che dal vivo non sarei riuscita a prendere il tempo che il web mi ha dato. ma sono arrossita, comunque. e mi sono imbarazzata. solo ho avuto un'altra chance.

il corpo dunque, sul web, c'è. c'è nelle foto, nei video, ma c'è anche nelle parole, frutto di un battere dei polpastrelli sui tasti o sul touchscreen. e forse, tenendolo bene in mente, possiamo provare a giocarci le possibilità che ci da, partendo dal comprendere cosa facciamo noi per capire come i ragazzi stanno dietro gli schermi, e come se la giocano tra fisico e web.

e allora forse, possiamo recuperare la potenza della preoccupazione che si trasforma non in angoscia ma in curiosità e possibilità di fare nuovi pensieri. perché nella vita dentro e fuori dal web, i nuovi pensieri e le nuove esperienze valgono tantissimo: ci fanno crescere. qualsiasi età abbiamo. 




lunedì 3 febbraio 2014

legalità/illegalità #2


entrare in una scuola è varcare una porta, salutare i bidelli, salire un paio di rampe di scale, aprire una porta o trovarla già aperta con i ragazzi dentro che ti aspettano.
che ti aspettano???!??
non so.

io arrivo, il mio progetto esterno, due volte in ciascuna classe e due o tre "paggi" di quinta a fare da peer educators.
una scuola come tante, carica di testosterone per l'indirizzo che ha, con ragazzi che dovrebbero essere all'università ma sono in seconda, in terza.
una scuola fuori dal tempo per le materie che insegna, per il nome che ha.
ma i ragazzi, quelli dentro, quelli che fanno la scuola insieme ai professori, quelli sono perfettamente in tempo.

il percorso si chiama Devia: è partito lo scorso anno dall'idea di un ragazzo di quarta che parlando con una professoressa ha chiesto se non era possibile fare qualcosa per il bullismo che lui vedeva dilagante nella scuola.
la professoressa raccoglie la palla, chiede in comune se c'è qualcosa e una collega varca la soglia.

e trova un mondo di possibilità per parlare di un argomento scomodo che partendo dal bullismo arriva a ragionare attorno a ciò che c'è di legale e di illegale nel mondo che li circonda, a partire dalla scuola.
questa è una scuola che a loro piace per lo più: la dimensione laboratoriale, i progetti che entrano a scuola, un gruppetto di professori che ci credono molto, un bidello simpaticissimo.

in pochi mesi prima e dopo l'estate, con un gruppo di ragazzi "grandi" si è ragionato attorno al tema della legalità (e dell'illegalità). si è parlato di bullismo, di sostanze, di web per arrivare alla conclusione che il clima di classe incide molto sia sul rendimento dei singoli (sul successo formativo, diremmo noi) sia sul benessere della persona. e che "se uno sta bene, di cazzate ne fa meno, almeno."

con i grandi si è ragionato anche attorno al tema della responsabilità e con questo della necessità di "formare" gli altri compagni. sono stati così realizzati dei piccoli percorsi in ogni classe con temi e modalità differenti tra prima, seconda e terza. i grandi a fare da tutor del percorso, un educatrice in classe a condurlo. pensare, pensarsi. capire cosa si fa e come si sta. e che le due cose sono collegate.

ma cosa c'entra tutto ciò con la legalità?
quella è stata la dimensione sempre discussa sulla quale ci siamo (classe, tutor ed educatrici) affacciati: cos'è quel confine tra legalità e illegalità? com'è fatto? cosa c'entra con la scuola?

abilissimi a trovare ciò che di illegale li circonda, soprattutto quando sono le istituzioni che conoscono che le attuano (la scuola, il comune, l'associazione sportiva,...) faticano a vedere il proprio pezzo e ciò che è quotidiano: "si va bhe, ma quello è normale!"

ma la fatica maggiore è guardare in prospettiva, ad un futuro che non sanno e che nessuno li aiuta a vedere: pochi sogni nei cassetti, tanti desideri immediati e parole di canzoni che colpiscono per l'intensità e per la rapidità.

ma forse, anche questo furto di sogni, non è illegale?



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il percorso Devia è stato realizzato all'IPSIA di Melzo da Progetto Itinera. Progetto Itinera si occupa di ragazzi tra gli 11 e i 18 anni ed è frutto della coprogettazione tra due comuni (Melzo e Liscate -Mi-) e un'Ati composta da tre realtà (Coop. Milagro, Coop. Spazio Giovani, Parrocchia S.M. delle Stelle di Melzo)




mercoledì 22 gennaio 2014

legalità/illegalità #1




il ragazzo più seguito dai servizi sociali tra quelli che ho mai incontrato:
nell'ultimo anno è passato da un ingente monteore di assistenza domiciliare minori (Adm) e da tre comunità minori.
lo segue uno staff intero.
ha 15 anni.
ha una famiglia alle spalle, una situazione "normale" o quantomeno come altre.
ha una serie di carichi pendenti con la giustizia, e lui lo giudica "normale".
ha un problema di definizione del limite tra ciò che è normale e ciò che non lo è, tra ciò che è legale e ciò che non lo è.

dunque: un ragazzo così cosa ci trova in un progetto di tutoring educativo da non mancare un incontro?
l'inizio, sempre con puntualità, c'è stato il misurarsi.
poi lo sperimentarsi.
ora forse anche il fidarsi,
tanto da raccontarmi di aver fatto da terzo ad un pestaggio per cui è in attesa di processo.
e se ne vanta: sia del pestaggio che del processo, anche di non aver detto i nomi degli amici.
"il poliziotto mi ha detto che sono un omertoso. ma io, i nomi dei miei amici non li faccio"

su un ragazzo così le domande che si aprono sono tantissime, sfaccettate.

in una scena dove l'illegalità è esaltata, esiste una possibile strada da intraprendere?
che potenza ha la legalità quando incontra l'illegalità diffusa e dichiarata?
la legalità va interrogata, ha bisogno di percorsi lunghi e faticosi, per cui servono competenze basilari?

perché se è così, qui non c'è nulla da fare...

lui è simpatico, ma soprattutto, è vivo.
nel senso che, nonostante tutto, o forse proprio perché ne ha combinate di ogni, lui ci sta provando: è in gioco.
non uno spettatore.
no.
in gioco con tutto se stesso, lui è in scena.
e questo, è l'appiglio potente da prendere a mio avviso.

ma se gli adulti che ha attorno gli hanno messo un'etichetta, quella del deviante, a cosa serve il suo essere in scena?
e mi chiedo ancora: ma il mettere un'etichetta cosa insegna? è giocare pulito? è "legale"?

giovedì 3 ottobre 2013

segni indelebili #Welcome



ci sono esperienze che lasciano segni indelebili, che mettono a nudo capacità e fatiche, abilità e disabilità individuali.
ci sono lavori che riguardano te soltanto e altri che coinvolgono molte altre persone.
ci sono momenti in cui devi tirar le fila di tutto ciò, comprendere ciò che hai imparato, ciò che lasci ad altri, ciò che ti resterà sempre dentro.
ci sono fatiche, come quella di scrivere questo post, tutte emotive.
perché, mentre sento della tragedia successa la notte scorsa a Lampedusa e delle ignobili parole espresse, non posso non fare il parallelo con un'esperienza di incontro, di meticciamento, di accoglienza e di inclusione sociale a cui ho partecipato. 

un luogo difficile per contesto sociale, una scuola di periferia del mondo, con almeno una decina di lingue che, sempre e spesso diverse, ascoltavi fuori dai cancelli. 
per tre anni il progetto Welcome ha portato la parola accoglienza in ogni gesto, in ogni frase, diventando "un profumo, un'essenza che permea tutte le discipline"1.
per tre anni ho bussato a porte, proposto sguardi, aiutato a costruire nuovi legami, coinvolto colleghi, insegnanti, genitori con la convinzione sincera che quella scuola è una scuola di eccellenza: una scuola che mostra competenza e professionalità al passo coi tempi, che ha a cuore i bambini che incontra e che accompagna a volte per molti anni, a volte per pochi mesi.

la scuola ha risposto prima resistendo, poi lasciandosi contaminare da proposte "strane", vagamente invasive che puntavano sul far entrare in contatto prima e in relazione poi, gli adulti che con quei bambini hanno quotidianamente a che fare. 
I genitori non si sono tirati indietro mai; gli insegnanti hanno imparato a fidarsi di loro, delle loro idee, della loro disponibilità a pensare di essere da supporto alla scuola "perché ci tengo, perché è la scuola di mio figlio e voglio contribuire a migliorarla"2. una dichiarazione d'amore per la scuola pubblica di cui c'è bisogno; dall'altra parte docenti che possono fare la differenza, che sanno muoversi in questa direzione.

c'è però una scommessa ora: che l'accoglienza diventi parte di un sistema che vada oltre a ciò che ogni singolo ha appreso ed imparato attraverso il progetto Welcome, diventando patrimonio collettivo della scuola e del suo territorio perché il tesoro luccicante che si è piano piano scoperto, li, proprio in un luogo dove non ci si può immaginare di trovarlo, è delicato e fragile.
le basi ci sono, le persone anche. 
bisogna non farsi imbrigliare dalle formalità non necessarie, non irrigidirsi nella burocrazia che limita la fantasia e la possibilità, bisogna aver a cuore i bambini, gli alunni e la scuola. pensando ogni giorno, in ogni sguardo, a tutta la complessità.
questo mi auguro che rimanga, questa è la vera sfida che è sul piatto.

è questo che Lunedì 7 ottobre presenterò alla IV Conferenza Europea delle Scuole che promuovono Salute per cui siamo stati selezionati.
e con me, in quel discorso, vorrei far risuonare le voci e le esperienze fatte da tutti i bambini, gli insegnanti e tutti i genitori coinvolti.



1. Maestro Ivan Taurino
2. Le parole delle mamme del Gruppo Genitori
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Il progetto Welcome è nato da una coprogettazione dell'Ex Terzo Circolo Didattico "Enzo Bontempi" di Pioltello (Mi) e dalla Cooperativa Sociale Milagro finanziato da Fondazione Cariplo. Il progetto triennale si è concluso a giugno 2013.
Il Circolo Didattico era composto da una Scuola Primaria e da una Scuola dell'Infanzia; a settembre 2013, attuando le normative regionali, le scuole sono state accorpate con altre del territorio diventando un unico grande circolo didattico.









mercoledì 16 gennaio 2013

che cosa ci dicono #letroiedellamiascuola

è da stamattina che cerco di scrivere questo post ma non è un post semplice, non è una riflessione veloce di quelle in cui hai la visione lucida ma una serie di domande che si susseguono, teorie e confutazioni per provare ad articolare il tema.

provo a partire da qui:
fino a qualche ora fa stava ancora impazzando #letroiedellamiascuola su twitter, ora sembra ci sia calma piatta. o forse domani hanno tutti un compito in classe e sono andati a dormire. bene, bravi. dormite che vi fa bene. non come me che sono qua a pensarvi e a pensare a cosa vi sta passando per la testa a tutti voi, car* ragazz* che non leggerete mai questo post.
è che vorrei capire alcune cose:
1. è colpa di twitter che ha 140 caratteri e un nick name? che costringe alla sintesi, senza emoticon e che protegge con l'anonimato?
2. a chi volete far sapere che cosa fanno o come sono #letroiedellamiascuola?perchè non è che dite: xy fa cosi. no, generalizzate, dunque state parlando con tutto il mondo, ma con nessuno in particolare.
3. ma siete voi che twittate che siete le vittime di una cultura che porta a definire bene e male in modo netto o lo sono quelle che voi definite "troie"? o entrambi? e da dove nasce questo spartiacque?
ovviamente non da voi. ovviamente la responsabilità è nostra (generalizzando, ovviamente). ovviamente siamo noi che non riusciamo ad insegnarvi a fare i conti con la vostra affettività, con il vostro corpo, con il rapporto con gli altri.
vero, verissimo.
ma forse, non è che è proprio per questo, non certo dichiaratamente (lo so, lo so che non mi risponderete mai "si!" )ma non è per questo che lo fate?
ho infatti il dubbio che ci state urlando che avete bisogno di noi in quanto adulti che vi diciamo: ma ti pare il modo di fare? e a che scopo? ma tu, se fossi dall'altra parte come ti sentiresti? e da questa parte, dopo che hai scritto un twitt simile, come stai?

sarebbe interessante capire cosa è per voi la "norma" quando si va a scuola.
i twitt parlano per lo più di ragazze che si vestono un po' leggerine (o affette da un problema di termoregolazione); parlano di ragazze che si truccano parecchio; parlano di ragazze che "baciano chiunque". quanto mi piacerebbe sapere non quello che mostrano ma quello che pensano queste ragazze. magari ce ne meraviglieremmo. magari no...ma non lo posso dare per scontato.
e per me è sempre più importante l'essere e il pensare dall'avere e mostrarsi.
ma certo è che è che da qualcuno avrete imparato.
ma forse, e qui azzardo, avete anche imparato a chiedere aiuto: non state dicendo che avete bisogno di noi e se non rispondiamo, ci perdiamo anche questo treno per insegnarvi qualcosa?

qui entra credo in gioco lo strumento, il media che utilizziamo. perché noi (gli adulti)- mi è piaciuto molto l'articolo tempestivo di Luca Padovano- scriviamo post sui blog, al massimo su fb ma twitter lo utilizziamo per altro. e invece lì voi scrivete e per agganciarvi dobbiamo scegliere un territorio comune. e siamo onesti: chi è l'adulto della situazione? siamo sicuramente noi che vi dobbiamo offrire un'occasione di incontro.
in realtà ce ne proponete già un'altro: che effetto farebbe una lezione in classe domani sull'argomento? certo, meno plateale, ma sappiamo (lo sappiamo??) che le relazioni hanno bisogno di un luogo di incontro tra due soggetti per essere efficaci.
dunque benissimo scrivere qui, ma agire, muovere, parlarne con i ragazzi nei luoghi in cui li si incontra, non sarebbe un male.
certo, dobbiamo sapere di cosa e come parliamo.
noi (gli adulti) lo sappiamo??

lunedì 14 gennaio 2013

sogni vitali

l'importanza dei sogni continua a rimbalzarmi davanti come necessità per la costruzione di un sè che possa immaginarsi anche altro da quel che è, che aiuta soprattutto i giovani (ma non solo) a crescere. sognare è necessario. un po' come mangiare, per diventare grandi, sani e robusti. ma allora perchè non abbiamo insegnato a sognare? perchè non c'è spazio per loro (i sogni) nella nostra vita?
sembra che sognare sia un lusso per pochi.
ed invece è estremamente importante.

la cosa che mi sembra interessante è pensare che invece i sogni sono importanti proprio perchè ci permettono di proiettarci nel futuro, di immaginarci più grandi, più in là nel tempo.
tendenzialmente quando sognamo ci immaginiamo di stare meglio di ora, di essere più felici, di essere altrove o in una condizione differente, migliore.
ecco perchè diventa così urgente ora dire che i sogni sono importanti.

la crisi che stiamo vivendo ormai da anni ha minato molte vite creando condizioni di maggiore difficoltà rispetto alle posizioni di partenza. in contemporanea sono anni in cui si dice di rimanere inchiodati alla realtà, con i "piedi per terra" per non farsi troppo male incontrando il mondo.
il problema nasce dunque dal fatto che ci si trova in una condizione di crisi economica e di impoverimento sociale che avrebbe bisogno di una sferzata di creatività per poter emergere, ritornare a galla e respirare a pieni polmoni.
la creatività, come leggo nel bel post di Annamaria Testa non se la passa molto bene, si fa fatica ora anche a definire cosa sia.
credo che il problema sia strettamente legato all'incapacità di sognare: senza sogni, la creatività non viene perchè manca il porsi in una dimensione altra, nel sogno di un futuro.
dunque manca la creatività, si sono soffocati i sogni per paura di farsi male e ci sono rimasti solo i desideri materiali (mangiare e vestirsi, che guarda caso sono i settori meno in crisi).

servono allora spazi per i sogni.
sarebbe bellissima una stanza per sognare, come luogo pubblico in cui entrare e sognare.
sarebbe ancora più bello stare in un posto dove i sogni vengano facilmente: a contatto con la natura, davanti al mare o alle montagne, in un contesto familiare e amicale in cui ci si possa sentire protetti e allo stesso tempo liberi.
ma guardandomi intorno non ho ne uno spazio per i sogni, ne un bel posto in cui camminare, sedermi su una panchina, lanciare un ramo nel laghetto.

quello che mi chiedo è se sia possibile offrire uno spazio relazionale in cui poter sognare. e risognare. e sognare ancora. insieme.

credo che la difficoltà maggiore negli adulti sia proprio quella di ascoltare i sogni dei ragazzi e sollecitarne di nuovi, di guardare con sincerità negli occhi dei ragazzi e provare a vedere il mondo come sarebbe se i loro sogni fossero realtà. 
non tutti i ragazzi sognano d'essere veline o calciatori e quelli che lo fanno ci rimandano immediatamente alla nostra responsabilità (“Prima di imputare ai ragazzi dei sogni sbagliati, mi chiederei chi glieli ha messi in testa, educandoli a desiderare una carriera da calciatori e veline invece che a inseguire i propri veri talenti.” Massimo Gramellini, La Stampa 13/11/2012)
e se glielo chiediamo, i ragazzi, magari con sforzo, sicuramente un po' straniti dalla nostra domanda, ci danno risposte sorprendenti. 


lunedì 5 novembre 2012

connessione

Ho appena visto il video della Zanardo SENZA CHIEDERE IL PERMESSO che consiglio caldamente di vedere (e rivedere) e mi viene nella testa un'idea.
Forse più un abbozzo, un grumo d'idea.
Che ci sia bisogno di connettere, di mettere in connessione le preoccupazioni, i pensieri e le parole di chi si sta occupando di adolescenti e giovani a vario titolo provando a vedere partendo dal proprio ruolo per guardare a questa (ricca) generazione che ci sta alle spalle.
La Zanardo dice, correttamente, che sono molto molto preoccupanti i dati incrociati tra i giovani che ne studiano ne lavorano: la letteratura anglosassone li definisce NEET (Not in Educational, Employment or Traning), a me non piace molto ma sto ancora cercando un nome che mi paia adeguato.Ecco che questi ragazzi non li si può incontrare come fa la Zanardo (ma anche Gherardo Colombo o Cavalli sul tema della legalità) nelle scuole. Questi ragazzi, se ci interessano, li dobbiamo incontrare fuori da scuola e fuori da scuola, nelle serate pubbliche non li troveremo mai. Li si incontra invece in quei servizi e progetti che "abbassano la soglia" occupandosi del tempo libero (che è un paradosso, diciamocelo!) e che (però) costruiscono per molti di loro l'unica realtà dove incontrare adulti al di fuori delle mura domestiche.

In una di queste realtà, un mese fa, abbiamo organizzato GIOVANI SGUARDI AL FEMMINILE, una serata per parlare degli sguardi, delle parole, dei pensieri sul femminile che hanno i ragazzi e le ragazze. Abbiamo inoltre chiesto alle associazioni del paese di contribuire da adulti immaginandosi cosa potessero o volessero dire ai giovani attorno al tema.
Il risultato è stato una serata con una sessantina di persone presenti di cui una ventina di ragazzi.
I ragazzi hanno mostrato una grande voglia di prendere parola attorno ad un tema non certo semplice e di dire agli adulti presenti come loro "sono" e qual'è la realtà delle relazioni tra i due sessi.

Tra pochi giorni, in un comune vicino, presenteremo il cortometraggio A CORTO D'IDENTITA' scritto, interpretato e coralmente diretto da un bel gruppo di ragazzi con la mano esperta di un regista, di un fotografo e di un tecnico del montaggio. L'abbiamo guardato in anteprima con i protagonisti la settimana scorsa e la reazione a corto finito è stata, oltre che di sorpresa per come era venuto, di cercare di spiegare cosa avevano fatto e quale rappresentazione di se hanno dato. "il corto ti lascia li a chiederti come sono i ragazzi d'oggi, come un punto di domanda...alla fine non lo sappiamo bene neanche noi come siamo..."

L'intuizione che mi viene è che progetti come questi avrebbero bisogno di un respiro che vada oltre al proprio "orticello". Non so in che forma, ma sarebbe interessante provare a connettersi, intrecciarsi, meticciarsi con altre esperienze per amplificare queste voci e per dare ai ragazzi la possibilità di fare esperienze altre, di veder tese altre mani, di adulti che hanno voglia di aiutarli a crescere.
Creare una rete di adulti che crede in loro sarebbe proprio una bella novità...